(1855-1935)
(cfr. Lorenzo Massa, Coadiutore Antonio Tarable in E. Valentini (a cura di) Profili di missionari Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice, Roma, LAS, 1975, p. 127-130).
n. a Pocapaglia (Cuneo-Italia) il 5 maggio 1855; prof. a Borgo San Martino il 25 dicembre 1884; m. a Magellano (Cile) il 31 marzo 1935.
Dal suo arrivo alle regioni australi fino alla sua morte, erano trascorsi 47 anni, dei quali 21 vissuti nell’isola Dawson, vale a dire, quasi tutto il tempo che durò la celebre missione colà stabilita dal grande apostolo mons. Giuseppe Fagnano.
Poté dunque vedere la realizzazione dei sogni di Don Bosco e dei desideri di Don Rua, il quale nel 1890 scriveva a mons. Cagliero: «Spero non sia lontano il giorno di veder nella Patagonia un giardino di nostra santa religione come Don Bosco aveva predetto poco prima di morire».
Il nostro Tarable, in più occasioni, soleva ripetere: «Don Bosco mi disse: Andrai nella Terra del Fuoco con mons. Fagnano, lavorerai molto, vivrai sempre colà, … e quando arrivi l’ora di morire, io stesso verrò a prenderti per portarti in Cielo». La sua morte, placida, senza sofferenze, fu il compimento della promessa di Don Bosco.
Era nato a Pocapaglia, nella provincia di Cuneo, il 5 maggio del 1855, da Bartolomeo e da Giovanna Voghera. Fino a 27 anni si occupò di lavori campestri, distinguendosi sempre per la illibatezza dei costumi. Il suo parroco, mosso dalle circolari di Don Bosco, che chiedeva gli si mandassero giovani virtuosi desiderosi di andare nelle missioni, glielo presentò; e Don Bosco lo inviò al collegio di Borgo San Martino per la prima prova il 17 gennaio del 1882. Il 25 dicembre del 1884 emise la prima professione nelle mani di Don Bosco. Il 2 ottobre del 1887, insieme con molti altri che professavano per la prima volta, fra i quali il ven. Don Andrea Beltrami, fece la professione perpetua a Valsalice. Forse quella fu l’ultima professione religiosa ricevuta da Don Bosco.
Quindi ritornò subito a Borgo San Martino, dove, come gli aveva detto Don Bosco, doveva prepararsi per andare nelle missioni. L’intrepido mons. Fagnano, che in quel medesimo anno aveva fondato la missione di Punta Arenas (oggi Magellano), dopo aver steso i suoi primi progetti di evangelizzazione degli indi, si diresse a Torino per sollecitare da Don Rua, che in quei giorni succedeva a Don Bosco, il personale necessario. Poté allestire una spedizione di sei missionari e di cinque suore di Maria Ausiliatrice che parti da Genova il 3 di novembre del 1888. Tra i confratelli coadiutori che accompagnavano mons. Fagnano, trovavasi pure il nostro Tarable. Arrivati a Punta Arenas il 5 dicembre, Monsignore lo destinò alla residenza fondata alcuni mesi prima in quella città, dove fu subito il factotum: cuoco, portinaio, sacrestano, ecc.
Intanto, nella missione dell’isola Dawson fondata poco tempo prima, era morto il coadiutore Silvestro a causa delle ferite ricevute dagli indi in un assalto alla missione. Mons. Fagnano mandò il confratello Tarable a sostituirlo. Qui incominciò una vita di abnegazione e di eroici sacrifici. Non aveva ricevuto dal Signore grandi talenti e neppure doti fisiche che lo facessero distinguere fra gli altri, ma impiegò tutte le sue energie per il bene dei poveri selvaggi. E ottenne molto, perché possedeva doti che aveva conseguito coll’esercizio continuo della vigilanza e dell’orazione: un grande amor di Dio, un grande amore per la Congregazione e un grande amore per le anime. «Un missionario salesiano deve obbedire e soffrire», aveva scritto Don Bosco a uno dei missionari, ed il nostro Tarable fece di queste parole il programma di tutta la sua vita.
I suoi primi anni nell’isola li dedicò alle cure dell’orto e alla fabbricazione del pane (bisognerebbe aggiungere: quando vi era farina, poiché vi fu un’epoca in cui la mancanza assoluta di mezzi di comunicazione fece sì che i salesiani, le suore, e 500 indi non potessero assaggiarlo per vari mesi) . Dal 1891 fu addetto alla cura del bestiame e incaricato di provvedere latte e formaggio alla missione. Nel 1895 Monsignore installò la segheria, e il buon confratello fu uno di coloro che con più entusiasmo lavorarono pel suo maggior incremento. Dal 1893 è il provveditore della carne alla missione, occupazione che esigeva molti e penosi sacrifici, come quello di vivere settimane intere percorrendo l’isola che ha un’estensione di più di mille chilometri quadrati, alla ricerca dei buoi che si erano resi selvaggi. Molte notti le passò a cielo scoperto ravvolto nei suoi mantelli, magari svegliandosi alla mattina mezzo sepolto nella neve.
La sua vita nell’isola Dawson fu interrotta unicamente da un avvenimento meritevole di figurare in queste notizie biografiche. Nel 1904, celebrandosi a Torino il decimo Capitolo Generale della Congregazione, il nostro Tarable ebbe prima il voto dei suoi confratelli dell’isola Dawson per accompagnare il direttore Don Carnino al Capitolo Ispettoriale, e quindi il Capitolo Ispettoriale lo elesse a sua volta come delegato per accompagnare mons. Fagnano al Capitolo Generale. Forse fu in questa circostanza che, per mostrare il suo amore a Don Bosco, scrisse nella scheda di elezione di qualche capitolare il nome di Don Giovanni Bosco. E veramente nel sentir parlare di Lui si commoveva sempre. Negli ultimi anni bastava domandargli qualche cosa di ciò che Don Bosco gli aveva detto, perché abbondanti lacrime sgorgassero dai suoi occhi.
Non si creda che i pressanti lavori della missione preoccupassero tanto il suo spirito da non lasciargli tempo per elevarlo a Dio. Don Carnino, che fu suo direttore nell’isola Dawson, mi dice che fu sempre un modello di pietà, spirito di raccoglimento, amore al sacrificio e all’assistenza dei ragazzi indigeni raccolti nella missione. Nelle ricreazioni mai li abbandonava; se vedeva che si formavano crocchi, Tarable ti si introduceva e colle sue belle maniere li invitava a giuocare. Se qualche indio se ne fuggiva dalla missione, senza temere i pericoli cui doveva esporsi, andava dietro alla pecorella smarrita e non riposava se non dopo averla riportata all’ovile. Nonostante fosse come un pigmeo in confronto alla corporatura degli indi, giammai ricevette dai medesimi la benché minima offesa, per l’amore grande che gli portavano.
Ma venne l’ora in cui il nostro Tarable dovette abbandonare la missione. Nel 1911 persone interessate presentarono i salesiani come sfruttatori degli indi e della «Perla dello Stretto». Per evitare la campagna della stampa settaria mons. Fagnano dispose che i salesiani la abbandonassero, consegnandola al governo cileno. Parte degli indi furono trasportati alla nostra missione di Rio Grande in territorio argentino, e parte ritornarono alla vita nomade, per cadere vittime dell’ingordigia dei civilizzati. n coadiutore Tarable fu inviato allora a Punta Arenas. In questa città, sotto le paterne cure di Monsignore, dovette fare molti sforzi per lasciare le sue abitudini di uomo di selva e acquistare i modi gentili di portinaio in un collegio come quello di «San Giuseppe », già fin d’allora il preferito dall’aristocrazia del territorio. Uomo di grande memoria, assennatezza e buon fisionomista, giunse ad essere, come portinaio del collegio «San Giuseppe» il tesoro della casa, secondo l’espressione di Don Bosco.
Nel 1929 fu trasferito a Magellano. Gli anni, e anche una forte scossa elettrica ricevuta per inavvertenza, indebolirono la sua fibra robusta. Un continuo tremito s’impadronì delle sue membra e andò aumentando progressivamente fino a renderlo inatto al più piccolo lavoro, persino ad attendere a se stesso. Ed è precisamente in quest’epoca che risaltò meglio la sua virtù e il suo spirito religioso. Soffriva, taceva, pregava, e offrendo tutto al Signore, si sforzava di evitare agli altri ogni molestia.
Abbiamo una preziosa testimonianza del suo grande amore per la Congregazione e la sua illimitata confidenza con i superiori. Sono le lettere di ben tre superiori maggiori, dalle quali s’intravedono tre fasi della sua vita di missionario coi pericoli a cui si vide esposto e colle difficoltà che dovette vincere. Il nostro buon confratello quando si trovava a Dawson dovette manifestare a Don Rua il suo sconcerto per le sue continue assenze dalla casa e la vita errante pei boschi, senza poter prender parte alle pratiche di pietà; e Don Rua gli dice: «Occupandoti secondo ma volontà dei superiori fai l’obbedienza, e procura di supplire con frequenti aspirazioni e giaculatorie. Il Signore, che compensa generosamente tutte le opere buone che facciamo, terrà conto del sacrificio che devi fare e sarà più grande la ricompensa che ti darà in Paradiso». A Don Albera pare abbia manifestato certe defezioni nella missione. Alcuni confratelli, illusi all’apparente benessere che loro offriva il mondo, mancarono alle loro promesse e furono causa di gravi fastidi a mons. Fagnano, uomo di cuore magnanimo oltre ogni dire. Don Albera mette sull’avviso il caro confratello, che fu sempre l’uomo fedele ai superiori, e gli dice: «Continua ad avere sempre molta confidenza coi tuoi superiori, che sono sempre molto affezionati a te. Quelli che dopo aver messo mano all’aratro guardano indietro, chissà come si troveranno poi nell’ora della morte!».
L’ultima è una lettera di Don Rinaldi. Si lamentava Tarable che le sue forze andassero scemando, che già sentiva gli acciacchi della vecchiaia, e non poteva più essere così attivo come prima. Don Rinaldi fra l’altro gli dice : «Tu offri al Signore i tuoi dolori e acciacchi e fa tutto quello che puoi per render ti utile alla casa, e sta tranquillo … L’unione con Dio nel soffrire e nel lavoro sia la regola costante della tua vita e ti troverai contento specialmente nell’ora della morte».
Questa venne per lui il 31 marzo 1935, ai primi Vespri del primo anniversario della Canonizzazione di Don Bosco.