n. a Vicenza il 6 luglio 1922; m. a Venezia Mestre il 10 maggio 2011
13 maggio 2011 estratto omelia esequie)
Il Sig. Felice Rossetto è nato a Vicenza il 6 luglio 1922, secondogenito di Vittorio e Anna Zardetto. In seguito nasceranno altri otto maschi e una sorellina, morta subito dopo il battesimo. Gli undici figli sono il grande patrimonio di questa famiglia sana e laboriosa. Il papà, Vittorio, era una guardia regia, un carabiniere reale che dopo la guerra aveva ottenuto posti di vigilanza nelle prefetture di Venezia, Trieste e Vicenza.
La mamma, cresciuta fin da bambina con spirito di sacrificio, lavorava alacremente per sostenere la famiglia nell’unica filanda dei bachi da seta di Vicenza per mezza giornata e per l’altra metà a servizio delle famiglie patrizie della città. Di notte, al lume di candela, cuciva e rattoppava i pantaloni che passavano dai figli più grandi ai più piccoli.
Nel 1933, al termine della quinta elementare, Felice incontra un giovane studente dell’«Istituto missionario Mons. Cagliero», in vacanza in famiglia, (Vanzo Silverio, ora nella casa salesiana di Istanbul in Turchia) e riceve la proposta di continuare gli studi nella casa salesiana di Ivrea. Papà e mamma accolgono l’invito e il Parroco di «Santa Caterina» di Vicenza, attraverso la «San Vincenzo» provvede alla retta. Il direttore della casa, don Gioioso, accoglie il ragazzo a Ivrea e Felice, abituato all’aria libera di casa commenta con nostalgia il passaggio dall’ambiente familiare al collegio: «da finguello libero a passero ingabbiato». Rimarrà a Ivrea dal 1933 al 1938.
In quegli anni si ammala gravemente ai polmoni e, dopo un periodo passato a casa, viene richiamato da don Gioioso e ricoverato nel Sanatorio San Luigi di Torino. Felice ricorda così quei momenti: « Ci vollero due anni per debellare il male. Mi fecero migliaia di iniezioni di calcio, si dormiva anche d’inverno con le finestre aperte. Il mio protettore di cui ingoiai anche le reliquie è sempre stato Domenico Savio» (Ricordi di una vita, p. 3-4). Il Bollettino Salesiano pubblicò, in occasione della beatificazione di Domenico Savio, la testimonianza della guarigione completa di Felice, attribuita al beato.
Nella casa salesiana del «Rebaudengo» si diploma come sarto tagliatore da signora e dopo 4 anni di aspirantato viene ammesso al noviziato.
Nel 1942 inizia il noviziato a Chieri «Villa Moglia» e, dopo aver professato con altri 120 novizi, viene destinato a Bagnolo Piemonte, dove erano sfollati gli studenti di teologia dell’Istituto Teologico Internazionale. In un rastrellamento tedesco viene arrestato e mentre passa davanti alla casa salesiana viene salvato in extremis da Alfons Stickler, allora catechista della casa e successivamente vescovo e cardinale: «in un rastrellamento tedesco – racconta Felice con senso di riconoscenza – dove mi avevano preso e mi portavano, lungo la strada che passava davanti all’Istituto Teologico internazionale, alla fucilazione. Dalla finestra dell’Istituto parlò ai tedeschi che mi avevano preso. Un ufficiale si fermò e gli chiese chi era. Mostrò le sue credenziali di Hitler, e che poteva insegnare nelle Università italiane e immediatamente mi slegarono e mi lasciarono libero. Furono fucilati 18 miei coetanei. A lui devo la vita» (Ricordi di una vita).
Felice rischia per una seconda volta la vita. Mentre serve la Santa Messa un tedesco gli punta un fucile e gli intima di seguirlo: «come agnello destinato al sacrificio – continua Felice nel suo racconto – faccio strada al tedesco che con l’arma puntata alla schiena mi porta nella piazza del paese davanti alla chiesa. (…) Eravano forse un duecento persone di tutto il paese» (Ricordi di una vita, p. 6). Pochi giorni prima vicino a Cumiana i tedeschi avevano trucidato 80 persone e avrebbero fatto lo stesso se non fossero stati rilasciati i due ufficiali tedeschi sequestrati dai partigiani. In quel momento Felice promette al Signore che se si fosse salvato sarebbe partito per le missioni. Anche questa vicenda drammatica si conclude bene, in seguito al rilascio dei due ufficiali: «I partigiani avevano liberato i due ufficiali, ed io ho mantenuto la mia promessa, con 35 anni di missione in El Salvador». Dopo alcuni anni passati nella casa salesiana «Conti Rebaudengo» di Torino (1944-1947) per il magistero professionale, Don De Bernardi esaudisce la sua richiesta di partire per la missione e viene destinato a El Salvador.
Dal 1947 al 1981 lavora nella casa salesiana di Santa Tecla, «Collegio Santa Cecilia» a San Salvador. In quegli anni si laurea in ingegneria meccanica e svolge il suo lavoro con fedeltà come capo laboratorio di meccanica del Centro di formazione professionale per i ragazzi salvadoregni poveri e abbandonati. Nel maggio del 1980 un gruppo di 30 guerriglieri comunisti irrompono nel collegio per circa mezz’ora e Felice si oppone con coraggio all’occupazione. Il paese è in piena guerra civile e i guerriglieri, che non dimenticano la reazione di Felice, lo condannano a morte. Dopo un breve soggiorno in Italia viene trasferito a Panama, ma anche qui non si sente al sicuro. Il Direttore di Santa Tecla gli consiglia di rientrare in Italia per non rischiare di nuovo la vita. Felice preferirebbe continuare la vita in missione a Panama, ma conclude con quel senso di humor che lo ha sempre contraddistinto: «è meglio rientro definitivo in Italia che una pallottola nel cervello» (Lettera di Felice all’Ispettore di Verona, Don Francesco Maraccani, Panama, marzo 1981).
L’ispettore del tempo, don Francesco Maraccani, lo destina a Verona «San Zeno», e qui vi rimarrà per vent’anni fino a gennaio del 2011, quando viene accolto nella Comunità «Artemide Zatti» di Mestre.
Felice ha affidato a Dio la sua vita nella Congregazione salesiana e ha lavorato tutta l’esistenza per la salvezza dei giovani. Preghiamo perché Felice che stiamo per deporre nella terra, come il «chicco di grano», veda l’offerta della propria vita gradita dal Signore Gesù e possa godere con Lui la vita eterna.