(1909 – 1986)
di Giuliano Malizia
Felicetto. Lo chiamavano così. Che fosse felice tutti lo sapevano, ma lui di certo non lo dimostrava. Neanche la visita di due pontefici riuscì a elettrizzarlo. L’imperturbabilità di un grande oratore che ha parlato tanto… con il silenzio! Solo una volta mi fu possibile cogliere sulle sue labbra la smorfia di un sorriso, quando gli donai questo sonetto che gli avevo dedicato.
Da quanno che ce sta? Ce l’ho trovato!
Er tempo nu lo tocca, m’hai da crede;
se move a passo lento e strascicato,
pare che casca e resta sempre in piede.
Fatica come un povero forzato,
al lume de li ceri e de la fede;
se je discori, resta senza fiato,
se vorta a n’antra parte e nun te vede.
L’Avemmaria la sona, ce scommetto,
pe’ dì co le campane una preghiera;
poi resta solo, e prima d’annà a letto
coll’occhi che je cascheno per tera,
ripone da na parte er cataletto,
se dà na grattatina e… bonasera!
A Testaccio, un rione ben conosciuto di Roma, sono sempre esistiti ed esistono ancora personaggi dotati di quel tanto di originalità con cui forse involontariamente insegnano agli altri che dopo tutto la vita bisogna prenderla come viene, e che la felicità può essere raggiunta anche in questo mondo: basta cercare e adattarsi a una certa filosofia, secondo il proprio gusto. Nella chiesa di Santa Maria Liberatrice ha prestato servizio per quasi 50 anni un sagrestano, ritenuto un’autentica istituzione, da affiancare quasi al monumentino dei Caduti in guerra, che ancora regge al vandalismo e ai teppisti. Si chiamava Puliti Felice, ma tutti lo conoscevano come Felicetto. Avanti nell’età, non diede mai nessun segno di abbandono del lavoro quotidiano condotto sempre con lo stesso ritmo: percorreva in lungo e in largo il tempio senza uscir fuori dal solito tracciato, suonava le campane a morto a tre rintocchi alla volta perfettamente distanziati. Prepara per funerali e matrimoni, i battesimi, le cresime, le feste senza cambiare mai espressione, senza mai rallegrarsi, senza mai commuoversi. Imperturbabile ai cambiamenti del clima politico o atmosferico che sia. Ammesso al bacio dell’anello, il giorno in cui papa WojtyÅ‚a visitò Santa Maria Liberatrice, si è inginocchiato e si è rialzato con gli stessi movimenti e con la stessa espressione che ripeteva ogni giorno passando davanti all’altare. Anche chi è stato con lui per tanti anni afferma di non essere mai riuscito a notare cambiamenti di sorta sul volto, nei movimenti, nel tratto, nelle abitudini. Quegli occhi sono stati sempre gli stessi, mezzi spenti e mezzi assonnati – così sembrava – ma eternamente vigili. Quella bocca è rimasta sempre ferma a una smorfia pressoché inespressiva. Quelle mani, contorte negli ultimi anni dall’artrosi, hanno sempre obbedito alle candele, agli arredi sacri, alla ramazza. Soltanto le campane a festa a un certo punto sono riuscite a fare a meno di lui, quando si emanciparono, diventando le damigelle del nuovo impianto elettrico. Probabilmente gli dispiacque, e non poco, ma non lo fece capire a nessuno, non ne parlò con nessuno. Del resto, chiedere un parere, un’informazione, una notizia al nostro sagrestano era come chiederla a un muto.
Felicetto apparteneva alla chiesa come gli altari, il fonte battesimale, le colonne, le immagini sacre, i fiori… per lui il mondo finiva alle pareti della chiesa; oltre c’era tutt’al più qualche «bottegaro», felice di scambiare con lui un po’ di denaro con altrettanti spiccioli delle bussolette dell’elemosina che regolarmente a tutte le messe egli batteva per raccogliere quel poco che serviva alla chiesa e, più spesso, ai poveri.
Eppure il sagrestano non era un illetterato. Tutt’altro. Le sue letture preferite rispondevano ai nomi di Dante, dell’Ariosto, di Parini, di Manzoni: a volte l’apparenza inganna. Quella specie di rudere da piramide egizia nascondeva e conservava una sensibilità culturale da far invidia a un professore. Inoltre, sembrava impossibile che le sue braccia, provate dalla stanchezza e dagli anni, possedessero una forza fuori del comune, dimostrata più volte dal sollevamento di lunghi e pesanti banchi-inginocchiatoi.
Lavoratori come lui non era facile incontrarli, perché erano e sono decisamente un’eccezione nel panorama degli operai, anche di quelli della “vigna del Signore”. Se a chi l’osserva veniva naturale uno sbadiglio, voleva dire che era stato plagiato da lui, dal sagrestano!
Tuttavia non si poteva fare a meno di ammirarlo e di rispettarlo. E ammirazione e rispetto erano unanimi nei suoi confronti, da parte sia dei grandi sia dei piccoli. Se è vero che era schivo, che più schivo non si può, è altrettanto sacrosanto che era mite, paziente, addirittura amabile, secondo coloro che riuscivano a scucirgli qualche parola e a imbastire qualche stralcio di conversazione. Non per nulla tra i “suoi” chierichetti ben cinque sono diventati preti, e sono proprio loro a dire che una certa “responsabilità” ce l’ha pure Felicetto “con tutto quello che ci ha insegnato senza mai parlare!”. Quando si concedeva la bozza di un sorriso era una festa. Dio sa quanto valga “lassù” il servizio prestato per un’intera vita tra nuvolette d’incenso e lingue di fuoco sospese sulla punta delle candele. Lo sanno migliaia e migliaia di defunti passati sul cataletto per l’ultimo atto di carità e pietà cristiana. Lo sanno le genuflessioni ripetute un’infinità di volte. Lo sa la gente del Testaccio, che l’ha visto sempre darsi d’attorno perché le feste, le processioni, le messe, le cerimonie si svolgessero “alla perfezione”. Felicetto c’era. C’era sempre, e ciò bastava a che tutto filasse perfetto. Sarà così anche in Paradiso?