Patriarca Antonio

(1866-1926)


(cfr. Pascual Paesa, Coadiutore Antonio Patriarca in E. Valentini (a cura di) Profili di missionari Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice, Roma, LAS, 1975, p. 256-257).


n. a Caversaccio (Como) il 23 novembre 1866; prof. a San Benigno Can. il 24 settembre 1897; m. a Fortin Mercedes il 29 novembre 1926. 


Era un uomo collaudato. Aveva percorso mezzo mondo, e con molto coraggio. Dalla sua terra emigrò in Francia. Dalla Francia passò in Africa. Ma la fortuna di cui andava in cerca, lo colpiva duramente. Come le pietre che egli spezzava ogni giorno: il suo mestiere era lo spaccapietre.

Spaccando e aspettando, arrivò fino agli Stati Uniti. Intelligente, laborioso e sacrificato, intraprese opere di maggior peso e di minor asprezza. E ci riuscì. Divenne un costruttore. Ma a dispetto dei suoi trionfi, continuava ad essere piuttosto pessimista. Nel fondo della sua anima fervevano aspirazioni insoddisfatte. Aveva percorso mezzo mondo senza accorgersene, e ora se ne accorgeva.

Ma un giorno la luce del suo destino brillò. Dalla sua patria, la sorella gli spedì un Bollettino Salesiano. L’ideale di Don Bosco lo affascinò, e gli fece sentire la chiamata definitiva. La vita missionaria, spirituale e sacrificata, soddisfaceva il suo temperamento di asceta. Questa coincidenza segnò per sempre la sua vita secondo il suo stile: con una donazione totale e senza esitazioni. Perché il signor Antonio era così: si donava con piena coscienza e integralmente.

Io lo conobbi quando era già anziano. Lo ammirai e gli volli bene. Sebbene, con rispetto e un certo timore: era un uomo energico e molto retto, di una rettitudine schietta. Il filo a piombo che usava per le costruzioni, lo usava pure nella vita. Faceva sempre quello che giudicava meglio. Forse non suscitava simpatia. Ma era molto fresca l’acqua della sua amicizia.

Seguendo il suo ultimo cammino e la sua aspirazione, tornò in patria. Il santo successore di Don Bosco lo fece senz’altro salesiano. E lo mandò come missionario in Patagonia. Il deserto patagonico aveva bisogno di costruttori. Templi e torri che santificassero ed elevassero a Dio quelle pianure, sconfinate come le sue ricchezze e l’ingordigia dei nuovi coloni. Collegi e laboratori per una educazione cristiana delle famiglie, lontane da ogni forma di vita sociale.

Il signor Antonio creò la meravigliosa cattedrale di Viedma. La costruì mattone per mattone, curandola come un gioiello. Un’opera da romani. Per quanto non fossero tutti romani quelli che vi lavorarono. Gli diedero un buon aiuto i prigionieri del carcere del territorio del Rio Negro. Energico e infaticabile, Antonio ottenne da essi l’impossibile: farli lavorare. Non sempre, tuttavia, di loro spontanea volontà. Perché tentarono perfino di buttarlo giù dalle impalcature.

Innalzò pure il tempio di Rawson, capitale della Provincia dei Chubut. Che tra l’altro, ha pure il valore di essere stato costruito presso il parallelo nettamente patagonico, il 44°.

Anni di fatiche e di infiniti sacrifici costò al costruttore il santuario di Maria Ausiliatrice a Fortin Mercedes. Dovette crearlo interamente la sua mano intelligente di fronte alla povertà dei mezzi, nel 1918. Con procedimenti che rasentavano la magia, preparava gli stampi scavando la terra. Vi rovesciava il cemento, e creava finestroni, rosoni, croci, modanature. Fabbricò volte con mezzi del tutto inadeguati. Ma il tempo gli ha dato ragione.

Il suo capolavoro è senza dubbio la cattedrale di Viedma. Per lunghi anni l’abbiamo visto lavorare con arte e pazienza da orafo. Ideò le arcate delle sue fondamenta monumentali. Chiuse cupole splendide e audaci. Disegnò e realizzò la maestà della facciata grecoromana.

Senza dubbio, fu il costruttore dell’opera di Don Bosco in Patagonia. Costruì e rifinì molti collegi e scuole, come esigevano i popoli nuovi. Era sicuro di se stesso e delle sue opere, come le mura cementate dalle sue mani.

Le ore di lavoro le regolava sulla luce. Lui stesso collocava gli orologi solari sulla fronte dei templi, delle torri, dei cortili. E nel suo borsetto ne custodiva uno ingegnosissimo: un micro-eliotropo di sua invenzione.

Pungolava gli oziosi. Non poteva star tranquillo davanti all’incuria. E dava per primo l’esempio di un lavoro continuo. Perché si era donato a Don Bosco tutto, e non riposava. Quando non costruiva, riparava. Nessun lavoro era umile per questo operaio del Signore. Le sue mani seminavano da ogni parte la benedizione del suo coraggio. Solo all’annottare si ritirava nella sua modesta stanzetta. Era un avido lettore. Sotto un’apparenza rude, nascondeva un’intelligenza curiosa e acuta. Il suo autore preferito e il tema delle sue conversazioni era il card. Capecelatro.

La vecchiaia cominciò a frenare i suoi slanci. Egli si accorgeva che il dono delle sue capacità e delle sue energie si indeboliva con gli anni. Energico e retto, chiese al Signore che lo chiamasse. Sulla porta della sua camera aveva impresso alcuni versi che esprimevano tale anelo. In un quadernetto intimo lasciò scritto: «Ho sognato di trovarmi in chiesa, davanti a un grande crocifisso. Era coperto con un velo bianco. Quando mi inginocchiai per adorarlo, mosse il braccio sinistro, e poi quello destro, e mi chiamò. Allora gli domandai: «Quanto tempo mi manca per andare in Paradiso?». Ed Egli mi rispose che sarei vissuto ancora cinque anni».

La sua preghiera fu ascoltata. Scaduti i cinque anni, il Crocifisso lo chiamò mentre lavorava ancora. La mia ammirazione e la mia amicizia lo vedono molto in alto. Su una cupola tanto alta e tanto splendida come quella che ha innalzato sulla terra.

Potrebbe anche interessarti...