Ferrero Giovanni

Nato a Canale (Cuneo) il 12 settembre 1916; Morto a Roma (Università Pontificia Salesiana) il 23 novembre 1998 a 82 anni di età e 63 anni di professione.


Le vicende della sua infanzia e della sua giovinezza


Pensando alla sua vocazione salesiana, Giovanni Ferrero così scriveva un giorno nel suo diario: «Se non fossero capitate tutte le cose capitatemi, forse non sarei salesiano». Quali cose sono capitate nella vita di questo confratello? Era nato nel giorno dedicato al Nome di Maria il 12 settembre 1916, a Canale, in provincia di Cuneo, nella diocesi di Alba. Giovanni, suo padre, era carradore di professione e la madre Claudina Stroppiana, negoziante. Era l’ultimo di quattro figli. Al battesimo gli fu imposto il nome di Giovanni, per ricordare il padre, assente a causa della guerra. Sulla sua infanzia e giovinezza abbiamo un quaderno autobiografico di settanta pagine, scritto probabilmente negli anni 1940-1941, nel quale egli racconta le sue vicende in terza persona, come se si trattasse di un suo amico. È opportuno sottolineare le prime manifestazioni del suo carattere, quando iniziava la scuola elementare: «Il nostro piccolo si distingueva per quella tendenza, tutta sua propria, ad ordinare sempre le sue cose. Voleva che ogni cosa fosse al proprio posto. E guai a chi osasse contraddirlo! Di ingegno perspicace, volontà forte, di sentimenti generosi, si mostrò subito il primo della scuola». Nel 1925, a nove anni, rimase orfano di padre. «Da quel giorno», è registrato nel quaderno, «solo più la sofferenza regnò in quella casa». Nello stesso anno, Giovanni si stava preparando alla prima comunione e alla cresima. «Gesù sarebbe dunque venuto a prendere possesso di quel cuore ancora innocente il giorno 6 giugno 1925. In quel giorno il piccolo Giovanni sarebbe anche diventato il soldatino di Gesù per mezzo della santa Cresima, […] ma il suo tenero cuore era ancora sanguinante per la perdita immatura dell’amato genitore». Poco tempo dopo la sorella maggiore si ammalò di tifo, seguita anche da Giovanni. Da quel susseguirsi di disgrazie la mamma fu affranta fisicamente e moralmente. Giovanni dovette recarsi presso una famiglia amica in un altro paese, dove rimase sette lunghi mesi, facendo anche il pastorello, a soli nove anni. Tornato a casa, per guadagnare un pò di soldi, divenne piccolo negoziante di stracci e pelli. Poi fece il garzone, lavorando tutto il giorno: «dalla stalla alla vigna, dal campo al prato, dal bosco al frutteto… sempre in movimento». A undici anni gli morì anche la mamma. Egli stesso le chiuse gli occhi. Il giorno primo le aveva promesso che dopo la sua morte sarebbe andato in collegio. Ma dopo la morte della mamma, Giovanni fuggì di casa per non andare in collegio… Finita la scuola elementare si dedicò presto ai lavori in campagna e al mestiere di piccolo negoziante.

Infine, egli stesso chiese di entrare in collegio; e nel 1931 fu ammesso nell’istituto professionale salesiano «Conti Rebaudengo» di Torino. Ricorderà sempre il suo primo direttore, don Ambrogio Rossi. Ebbe occasione di conoscere anche don Filippo Rinaldi; a proposito del quale scrisse nel suo diario: «E’ venuto al Rebaudengo a salutarci ed augurarci buone vacanze estive. Mi diede l’impressione di buon padre; mi intrattenne, ero dei più piccoli, mi fece alcune domande, mi benedisse». Desideroso di farsi salesiano, nel settembre del 1934 fu ammesso al noviziato di Villa Moglia – Chieri dall’ispettore, don Renato Ziggiotti. Alla fine dell’anno di noviziato, il 12 settembre 1935, fece la prima professione. Compiva proprio in quel giorno i 19 anni. Negli anni successivi, il coadiutore Ferrero si perfezionò nell’istituto tecnico, ma già da allora ebbe seri problemi di salute. Il 18 ottobre 1937, dopo uno sbocco di sangue, fu ricoverato nella casa di cura salesiana di Piossasco. Lì diventò l’amico del confratello Domenico Vanzo, un giovane chierico «senza tante parole e pretese, ma esemplare in tutto», colpito anche lui dalla medesima malattia «che non perdona». «Ci comprendevamo», scrive nel 1989 su un altro foglio di ricordi, «ci aiutavamo e diventammo come due fratelli». Il 15 gennaio 1939 fece la sua professione perpetua nella Congregazione salesiana. L’amico morì il 30 maggio dello stesso anno, non senza averlo assicurato della sua vicinanza dal cielo. L’anno successivo, troviamo Giovanni a Bagnolo Piemonte come insegnante nella scuola media e infermiere. Di quel periodo egli conservò alcuni fogli dattiloscritti, dove sono riportate alcune conferenze fatte da un salesiano su alcuni temi significativi: la confidenza verso il superiore, il teatro secondo Don Bosco, lo studio, il cortile, la camera, «ambiente più sacro che esista dopo la Chiesa», le occupazioni, la scuola, la devozione alla Madonna (il nome di Maria, la divina maternità, la Regina delle vergini, la Madre del buon consiglio, la Madre del Redentore e la Corredentrice, la Madre di Cristo), più alcuni testi e poemi in suo onore. Nel 1942 viene nominato provveditore, prima a Castelnuovo e poi di nuovo a Bagnolo: un ufficio che manterrà quasi fino alla fine della vita, insieme a quello di economo. Ma le sue attività si estendevano anche al campo educativo, all’animazione dei giovani, al teatro e alla musica. Negli anni successivi, esercitò il suo servizio a Cumiana, a Bollengo, al Colle Don Bosco e a Torino Rebaudengo. Tornò ancora una volta a Bagnolo, dove fu anche delegato degli exallievi e consigliere della casa.


Il teatrino


Durante i suoi anni di contatto diretto con i giovani, il coadiutore Giovanni Ferrero diede ampio spazio alle attività educative, specialmente al teatro. Lui stesso scrisse alcune piccole commedie. Una si intitolava Il Generale, soprannome di Michele Magone, ed era dedicata «a coloro che credono nell’efficacia di un metodo educativo che trasforma con l’Amore». Il primo atto si svolge sulla piazza di Carmagnola, dove don Bosco si incontra con il giovane capobanda. Il secondo e il terzo sono situati a Valdocco. Tra i personaggi vi sono alcune figure tipiche: una guardia campestre, un vetraio, il portinaio di Valdocco e un signore ricco, ma debole. Piccolo grande santo, in tre atti, dedicato «a tutti coloro che come Domenico Savio fan consistere la santità nello stare allegri», fu scritto per la festa del giovane santo del 9 marzo 1959. I primi due atti si svolgono a Valdocco, nel cortile a fianco della portineria: il primo pochi mesi dopo l’entrata di Domenico, e il secondo nel suo penultimo giorno di permanenza all’Oratorio. Il terzo atto si svolge a Mondonio, a fianco della casa di Domenico, l’ultimo giorno di sua vita. Appaiono sul palcoscenico, accanto ai compagni di Domenico, alcuni uomini ben caratterizzati: Beppe, il vecchio portinaio diffidente, che all’inizio non crede nella santità di Domenico; un carrettiere, vecchio piemontese, schietto e bonario; una guardia, tipo sostenuto, che parla napoletano; Marco, un vicino di casa di Domenico, semplice ma uomo di criterio; e poi il medico. Alla fine del testo l’autore aggiunge: «Tutto a gloria di Dio e per la salvezza delle anime». Per la Pasqua dello stesso anno 1959 Ferrero aveva composto una piccola commedia in dialetto piemontese, intitolata I pcìt fastidi. I personaggi portano nomi suggestivi, come «monssù Picassa», «Tomasin so fratel», «Benedet, Cusin d’Picassa», «monssù Litron», «Bianchet so fieul e modest portiè». Cuori in festa è un piccolo saggio umoristico per la festa della riconoscenza, cioè del direttore, del 1960. In palco si colloca una «immagine grossolana» del direttore. Siamo nel 1960! I personaggi tornano da un lunghissimo viaggio interplanetario durato mille anni… In quell’anno si legge nel martirologio il nome di don Alessandro, il quale «fu martirizzato dall’affetto filiale dei suoi confratelli nel giorno della festa della riconoscenza del 1960», poi proclamato patrono dei coltivatori diretti, perché tutta la sua vita la spese nelle scuole agricole e di arti e mestieri, diede incremento alla coltivazione della vite, all’allevamento dei polli e a tutta l’agricoltura in generale… Viene coinvolto nella fantasia anche il nome dell’ispettore dell’epoca, don Ermenegildo. Si leggono poi nel necrologio i nomi degli altri confratelli della casa e il loro destino scherzosamente preannunziato: quello del prefetto, don Ferdinando, «che dopo una lunga vita di sacrifìcio, di carità nella pratica costante di un eroico silenzio se ne volò al cielo»; del catechista, don Benedetto, diventato catechista generale della nostra Pia Società; di un consigliere, poi direttore e ispettore; di un altro, diventato maestro dei novizi per quarant’anni; infine del consigliere del magistero, diventato poi direttore, vescovo, cardinale, e finalmente eletto papa con il nome di Martino! Patria divisa, un dramma in tre atti del 1966, tratteggia temi più ambiziosi, che rispecchiano esperienze della guerra con storie di incursioni, bombardamenti, rastrellamenti. Appaiono sul palcoscenico un capitano, un tenente, un maggiore e alcuni soldati. La partita sembra si giochi tra patria e rivoluzione, tra bravi contadini ed esercito rosso… Si parla di tradimento, di tortura, ma anche della Provvidenza che veglia. Alla fine, i figli sbagliati della patria riconoscono il loro errore: «Ho sempre combattuto per la verità. Prima combattevo per la mia verità… Da quando incontrai il Capitano incominciai a dubitare della mia verità… Ora combatto per la sua verità, che d’ora in avanti sarà anche la mia».


All’Università Pontificia Salesiana di Roma


Nel 1973 il Sig. Ferrero fu destinato al Pontificio Ateneo Salesiano. Entrò a far parte della comunità Gesù Maestro, e nel 1975 del consiglio della stessa comunità. Per otto anni fu vice-economo della Delegazione PAS, e poi economo della comunità Gesù Maestro. In particolare, fu incaricato di sorvegliare il servizio dei refettori, facendo da tramite fra le comunità, la cucina e il personale di casa. Fu in seguito incaricato della cantina. Poi, fino alla sua ultima malattia, fu responsabile del parco macchine (manutenzione, gestione del servizio, contatto con le autofficine). Dal 1989 al 1997 abbiamo un suo diario personale con riflessioni e meditazioni scritte quasi ogni giorno. E fu probabilmente la rilettura del quaderno sulla giovinezza che lo spinse a questo. Infatti, alla pagina del 1° gennaio 1989, Giovanni scrive: «Spero di essere più fedele nell’incontrare il mio diario. Quando leggo qualche pagina del mio passato, mi fa bene: sia nel leggere qualche cosa di bene come leggere qualche cosa mal fatta». Grazie a quel diario, possiamo penetrare un pò nella sua intimità. La salute si faceva preoccupante: problemi di stomaco, disturbi al cuore, pressione alta, testa pesante, bronchi… Una piaga alla caviglia della gamba sinistra lo fa soffrire molto, qualche volta gli fa «vedere le stelle». Cerca di stare allegro, ma il dolore lo sente! Una vecchia croce quella, che porta quasi continuamente dai trent’anni… Ma «cosa sono le mie sofferenze in confronto a quelle di Gesù morto in croce?». «Gesù sofferente… soffre in silenzio», scrive il venerdì 5 aprile 1996. «La sofferenza di Gesù pesa molto su di me, io stesso soffro con Lui!». «Beati noi se sappiamo soffrire! La sofferenza ci unisce più intimamente a Gesù» (8 febbraio 1995). Quando c’è un miglioramento nella salute, «spero», scrive alla vigilia dell’Assunta del 1995, «di fare anche un miglioramento nell’amore a Gesù e a Maria». La sua famiglia restava presente al suo cuore. L’anniversario della morte della mamma, il 23 marzo, non passa mai inosservato. Nel 1992, in quella data scrive nel suo diario: «Son passati tanti anni, ma sempre ho sentito la mancanza di papà e mamma. Mi ricordo che in collegio pregavo molto per mia madre. La vidi in sogno che era su un pagliaio tormentata e sofferente. Pregai tanto Gesù per mia madre. Dopo un tempo, che non ricordo, vidi in sogno mia madre contenta, felice. Ho capito che Gesù l’aveva presa con sé. Gesù mi ha sempre esaudito». Il 29 aprile 1991 ricorda sua sorella Caterina, passata alla casa del Padre alcuni anni prima, e anche l’altra sorella. Viveva ancora il fratello di circa ottant’anni, che faceva da padre a quattro nipoti orfani di padre e madre. «Quante vicende nella nostra famiglia!». Il 23 marzo 1994 ricorda l’anniversario della morte della mamma. Il 15 giugno 1996 riceve la notizia del decesso del fratello Bartolomeo, morto all’ospedale di Alba, ma non gli è possibile andare a dargli l’ultimo addio.

Il lavoro non diminuisce, specialmente nei giorni di festa. «Giorno di festa, per me è giorno di più lavoro, perché devo pensare non soltanto, ma lavorare molto più del solito: colazione, cantina, auto e sovente pensare a carta, tovaglioli, raccogliere bottiglie, non avere servienti sicuri, ecc.» (15 gennaio 1989). Nel 1990, dopo un grosso lavoro per un convegno, si sente stanco: «Tutti soddisfatti per il vitto, per me è una fatica. È dura per me questa vita. Non ho il coraggio di ritirarmi per non dare fastidio al Superiore, ma desidererei avere un pò di calma per curare l’anima mia, fare con calma le mie pratiche di pietà, pregare, colloquiare con Gesù, con calma… e non dire soltanto in fretta a Gesù che lo voglio amare, che voglio fare tutto per amor suo…». Nell’ottobre del 1993, cambia ufficio: «Solo più le auto… quanti distacchi!». La sofferenza talvolta è viva, ma «tutti i santi sono passati per la sofferenza. Solo così si dimostra a Dio che Lo si ama. La ricompensa sarà nel Cielo, la nostra Patria» (14 dicembre 1993). Il servizio della comunità richiede dedizione, ma anche pazienza, carità, tra gli inevitabili contrasti. Una delle sue risoluzioni di confessione è «mantenere la carità verso i confratelli, rendere la vita più allegra, compresa, con il sorriso sulle labbra» (11 giugno 1995). Qualche volta sentiva la tentazione di lamentarsi, di sentirsi non capito, trascurato, di non potersi muovere quando gli altri andavano in gita… «Dovetti andare in cantina a preparare il vino, distribuire pane, frutta, vino, antipasti ecc. da solo… ed il cuore aritmico mi batteva forte, quasi mi toglieva il fiato» (9 settembre 1990). Ma subito arriva il pensiero della fede e il desiderio di essere più unito a Gesù.


La sua vita con Gesù


Quando non può compiere i propri doveri, scrive: «Solo l’unione con Gesù mi sostiene. Gesù sa che io faccio tutto quello che posso per il bene dei contratelli, della nostra comunità, della nostra Società. Soffro, ma sono contento di rimanere nell’ombra, di passare nel silenzio la mia vita. Sono sicuro che Gesù e suo Padre mi conoscono e conoscono il mio operare. Gli uomini si possono sbagliare, ma Gesù non si sbaglia». Invece, il suo onomastico, il 24 giugno 1991, lo rende felice: «Quante soddisfazioni! Ho avuto in questi giorni molte dimostrazioni di affetto: superiori, confratelli, operai, operaie, impiegati… Tutti mi furono vicino, anche le Suore e le ragazze. Tutti capiscono, sentono che io voglio bene a tutti, cerco di aiutare tutti. Commetto tanti sbagli, ma involontari, per debolezza». Il 24 marzo 1976 aveva chiesto e ottenuto dal Superiore di poter ricevere il ministero dell’accolitato. Era un servizio che certamente corrispondeva al suo amore all’eucaristia. Abbiamo trovato nei suoi documenti il testo ufficiale del «rito per la santa comunione fuori della celebrazione della messa, quando il ministro non è un sacerdote o diacono». La meditazione diventa più profonda. «Nella meditazione non mi sentivo di leggere, stavo davanti a Gesù, contemplavo Lui e aspettavo…» (5 gennaio 1979).

La pietà del nostro confratello coadiutore era tradizionale, ma molto sentita e fedele: rosario, s. messa, devozione alla croce, confessione, la Madonna, preghiera per i defunti, desiderio del paradiso. Quello che colpisce di più è l’amore a Gesù e al Padre celeste, il dialogo ininterrotto con il Signore e Amico, anche durante la notte, quando non riesce a dormire. «Vorrei avere un registratore per registrare i miei pensieri, quando alla notte non riesco a prender sonno. Tra me e Gesù ed il Padre viene un colloquio, che io non riesco a scrivere. Vedo l’amore di Gesù per l’uomo, per me, nell’essere venuto a cercarmi per riportarmi al Padre… L’amore del Padre nell’aspettarmi, nel mandare il Figlio a cercarmi e riportarmi al Padre… Il Padre celeste è sempre Padre! Io sono suo figlio, e anche scapestrato, sono suo figlio… Mi ha creato per suo figlio per l’eternità, non per dannarmi a scapito mio e della sua bontà, della sua misericordia, e perché il suo nemico Satana possa dire di aver vinto! O Padre, salvami dal mio nemico!».


Il trapasso


Durante l’ultima malattia, il sig. Ferrero chiedeva con insistenza di poter ricevere l’eucaristia. Usava un’espressione, che mi ha colpito e che ora capisco meglio, quando mi diceva: «Mi porti Gesù». Secondo un suo confratello amico che l’ha conosciuto bene, il punto cruciale del suo cammino verso il temine della sua vita non è da attribuirsi tanto all’età in se stessa e ad una malattia specifica, quanto piuttosto ad una lenta consummatio sia a livello fisico sia riguardo a tutto ciò che attinge e condiziona la persona nelle profondità dello spirito: consummatio, cioè, del proprio essere e del proprio «io», fino a dissolversi e sublimarsi in una oblazione totale di se stesso al «suo» Gesù sempre presente, assoluto punto di riferimento nella sua mente e nel suo cuore. I suoi molteplici meriti, infatti, sono una stupenda rivelazione di come i suoi atteggiamenti e comportamenti abbiano saputo nascondere una vita spirituale ineffabilmente ripiena di Dio in un totale, sapiente involucro. I funerali, celebrati nella chiesa della parrocchia S. Maria della Speranza, ebbero la partecipazione di una larga rappresentazione dei professori e degli studenti della nostra Università Pontificia Salesiana. Mentre ringraziamo il Signore di averci dato come fratello salesiano il coadiutore Giovanni Ferrero, uniamoci nella preghiera e facciamo tesoro dei suoi esempi.


Roma, 24 giugno 2000. Don Morand Wirth e Confratelli. Solennità di san Giovanni Battista Comunità S. Francesco di Sales


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