27/04/1934 – 10/04/2002. Esistono persone le quali ciò che fanno o lo fanno “sul serio” o non lo fanno proprio. Ecco annunciato il tratto essenziale dell’ingegnere Angelo Defilippi
“Educare non è fare prediche, non è comandare. Educare è risplendere! Educare è essere ciò che si vuole trasmettere. I valori, infatti, non s’insegnano: s’irradiano. Beati quei ragazzi che hanno educatori che ‘fanno’ il baule prima di parlarne, che hanno più esempi che rimproveri, che possono dire ai professori: quello che siete ci colpisce a tal punto da indurci ad ascoltare quello che dite”. L’ha scritto un exallievo. Per lui, per il prof Defilippi. Non credo siano molti a meritare un elogio del genere da parte di un exalunno. Perché Defilippi era un uomo senza mezze misure, senza tentennamenti. Non abborracciava: tendeva al meglio e voleva che si tendesse al meglio. E proprio per questo non risparmiava, se ne scorgeva l’opportunità, battute salaci non solo ai colleghi d’insegnamento ma anche ai suoi confratelli sacerdoti. Era un tipetto sui generis fin da piccolo. Raccontava egli stesso che alla povera maestra delle elementari ne combinava di tutti i colori. Tant’è che un giorno lei non ne poté più e, incontrando la mamma una domenica dopo la prima messa (erano tempi in cui a messa ci si andava tutti tutte le domeniche; e per convinzione non per convenzione), le si avvicinò e la mise al corrente delle monellerie di quel terremoto di suo figlio. Che cosa credete che abbia fatto la signora Maria Dematteis? Rincasando andò difilata nella camera del suo “Angelo” ancora beatamente in braccio al dio/sonno e giù quattro sonore sculacciate! Santa pedagogia, in barba ai tanti telefoni azzurri di oggi!
GIRARE AL MASSIMO
Anche i suoi pretendevano il massimo. E lui imparò da loro a pretendere il massimo sul lavoro, a scuola, in chiesa, in comunità. Quanto al lavoro: “Avevano bisogno di ingegneri e sono diventato ingegnere e contemporaneamente faceva il preside dell’ITI e il segretario della scuola. Come riuscisse a far bene tutto, lo sapeva solo lui. A scuola era esigentissimo, eppure gli alunni gli volevano un bene dell’anima. Non aveva bisogno di alzare la voce: teneva la disciplina solo con la presenza, ma era una presenza che riempiva. Anche il cuore e la mente. Non per nulla, lo stimavano in modo quasi eccessivo. “Perché chiedeva fatica, ma il primo a faticare era lui”, dice chi gli è stato vicino. In chiesa era esemplare, senza fronzoli o eccessivi pietismi. La sobrietà unita a una profonda ma quasi nascosta intensità religiosa che ha sempre rifiutato ogni teatralità, erano le sue caratteristiche. I suoi scolari lo sapevano bene. Quando li portava a Valdocco, in visita alla Casa Madre dei salesiani e alle camerette di Don Bosco, era capace di dire ai suoi ragazzi: “Ehi, adesso andiamo a confessarci tutti eh!”. Andiamo, non Andate! Lui, il preside, dava l’esempio, e trascinava gli altri. In comunità era la puntualità fatta persona. Si faceva sempre avanti per leggere, per servire. Non buttava via nulla… l’aveva imparato in famiglia, una famiglia di contadini che sapevano che cosa volesse dire “guadagnarsi il pane con il sudore della fronte!”. – A tavola era anche un allegrone – e… “una buona forchetta, quando ciò che c’era sulla tavola era buono”. Perfino troppo. Come quella volta che la trovò imbandita con il coniglio al “sivé”, che doveva essere un intingolo piemontese, speziato e particolarmente piacevole al palato, se perfino l’ingegnere quella volta debordò un po’ e si ritrovò con un forte mal di pancia. Colpa del sivé o del coniglio? Di nessuno dei due. Probabilmente era solo colpa della gola!
L’AMICIZIA
L’ingegnere, dicevamo, non usava mezze misure. Nemmeno a livello di amicizia. Raccontava che in montagna a Peveragno con due dei suoi migliori amici (era ancora un ragazzino) sgattaiolò sul campanile della chiesa per “contemplare il panorama”, segno evidente di un animo sensibile fino alla poesia alle bellezze del creato. Ci restarono un bel po’, ammaliati dallo spettacolo di un paesaggio inimitabile. Li riportò alla realtà il campanone di mezzogiorno e, subito dopo, la ramanzina del direttore. Ma capirono, i superiori, che quei ragazzi più che sbarazzini erano degli spiriti contemplativi e avrebbero avuto un grande avvenire nonostante la marachella.
Per l’amicizia era disposto a tutto, dicevamo, ma le sue erano amicizie serene, di riconoscenza più che di simpatia o di empatia: era il ringraziamento per chi collaborava con lui, per chi l’aiutava, per chi si dava d’attorno per istruire e formare i ragazzi. E in molti collaboravano con Defilippi, ma in modo particolare alcuni ingegneri che egli aveva conosciuto in Fiat, quelli dei cosiddetti “quadri”. Si era legato in amicizia con il direttore di sezione ing. Paladini, e da lui poté avere a disposizione specialisti in vari settori che venivano all’Agnelli a tenere lezioni di supporto. È stato un periodo glorioso per l’Agnelli e per Defilippi: tanti supertecnici per i suoi ragazzi… Ci teneva, l’ingegnere, a questa “potenza culturale” a favore della sua scuola, tant’è che la domenica a volte la passava, un po’ per riconoscenza ma un po’ anche per calcolo, in casa di “quadri Fiat” (ingegneri che aveva conosciuto e che voleva tenersi cari per i suoi ragazzi), perché poteva allargare conoscenze e possibilità.
FACEVA FUNZIONARE TUTTO
Un’altra delle sue virtù era quella di essere uno che sapeva fare il suo mestiere: riusciva a far funzionare tutto. Ogni tanto faceva una visita al “Gino/Lisa”. Il “Gino/Lisa” era un ex aeroporto di guerra passato a suo tempo all’azienda automobilista torinese come deposito di materiali di scarto, in disuso o in demolizione. Lì Defilippi sapeva trovare tutto ciò che gli serviva per far ri/funzionare le sue macchine “in sciopero”!
L’ADDIO
Nel 1993 un infarto l’avvisò che non tutto procedeva liscio nella sua salute. Non ci badò più di tanto. Ne ebbe un secondo qualche anno più tardi. Anche questo non lo fiaccò né lo immobilizzò nel timore. Così quando arrivò il terzo, non gli lasciò scampo. Se ne andò senza disturbare il 10/04/2002 a 67 anni.