(1870-1948)
(cfr. Pascual Paesa, Coadiutore Giacomo Dalmasso in E. Valentini (a cura di) Profili di missionari Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice, Roma, LAS, 1975, p. 216-217).
n. a Fossano (Cuneo) l’11 agosto 1870; prof. a San Benigno Can. il 19 settembre 1891; m. a Bahia Blanca il 5 giugno 1948.
Conobbe Don Bosco, e gli fu fedele fino alla morte. Non trovo un’epigrafe migliore né un migliore elogio per questo salesiano, che fu insieme ingenuo e coraggioso. Forte come i tronchi lavorati dalla sua mano. Semplice come i fanciulli che rallegrarono la sua vecchiaia. E che vegliarono le sue spoglie sorridendo. È la tempra di questi umili fratelli coadiutori che spiega la solidità e l’efficacia dell’Opera di Don Bosco.
Ormai vecchio e ritirato, i suoi amici lo chiamavano «’l véciu» nel suo pittoresco dialetto piemontese. E i suoi amici erano quelli che condividevano la sua inesauribile allegria. La sua lingua, un misto di spagnolo, piemontese, inglese, magellanico, era quanto mai arguta. L’avevano impastata le razze egoiste ed eroiche che correvano attratte dall’oro dello Stretto e dell’Arcipelago magellanico. Ma su tutte dominava il suo rude ceppo piemontese. Con quello superava tutte le leggi dell’etimologia.
Era nato a Fossano. Ancor molto piccolo, conobbe Don Bosco. Lo conobbe, e decise di seguirlo. Nel collegio di Sampierdarena si specializzò nell’arte del legno: «la carpanteria», come diceva lui.
Quando nel 1895 mons. Giuseppe Fagnano venne in Italia in cerca di uomini generosi per la sua grande impresa, il santo successore di Don Bosco gli diede il Dalmasso. E fu un dono fortunato. Perché da quel momento gli ideali e la persona del gran Capo fueghino saranno l’ideale, direi primitivo per la sua ostinazione, di questo fratello salesiano.
Arrivò con Monsignore a Punta Arenas. Pochi giorni dopo i colpi della sua accetta già risuonavano nel bosco dell’Isola Dawson. Cinquecento aborigeni si erano riuniti nella Riduzione San Raffaele. Non avevano casa né abiti. Scarseggiava tutto, perfino il cibo. Dalmasso costruì case di legno. Fabbricò baracche, mobili rudimentali ma robusti, mulini, imbarcazioni. E le sue mani trovarono ancor tempo per sarchiare la terra e seminare. E pascolare le greggi della missione.
Quando la missione dell’Isola Dawson fu sistemata, ne nacque un’altra nell’Isola Grande in Terra del Fuoco. Il «véciu» vi andò a ricominciare da capo le sue imprese. E quando nel 1908 mons. Fagnano guardò ancora più lontano, fino alle sponde del lago che fu poi onorato con il suo nome, Dalmasso fu nuovamente scelto. Parti nel 1909 con l’ordine di esplorare il luogo della futura Riduzione Indigena. Scelse i suoi cavalli, e affrontò il Sud e la selva. Si aprì il cammino con il machete. Guadò fiumi di montagna e paludi acquitrinose. Il suo ingresso decise Monsignore a fondare la missione sulle sponde del lago.
Dalmasso fu a capo della spedizione fondatrice. Partì da Porto Haberton con il Padre Giovanni Zenone. Sospingevano 725 pecore e 5 buoi. Arrivarono il Venerdì Santo del 1911. Presagio di quanto avrebbero sofferto per Cristo durante 12 anni. Dormivano in tende e su pelli di pecora. Il vino e l’acqua gelavano. Dovevano tagliare il vino con l’accetta. Isolati dalla neve, passavano l’inverno mangiando unicamente carne di pecora. Gli indumenti li lavava il mare. Li legavano sulla riva, e il mareggiare li candeggiava…
Il sacerdote dovette allontanarsi dalla Riduzione. Allora il suo isolamento fu totale. Anche la sua anima rimase senza nutrimento. Passarono così il primo inverno, con nevicate tremende e 20° sotto zero. Monsignore ordinò la costruzione di case solide. E un’altra volta fu scelto il «véciu» per la nuova avventura. Tornò a preparare i suoi buoi e il suo carro, ed entrò nel bosco con un aiutante. Era il primo carro che si avventurava in quei luoghi impraticabili. Caricando e scaricando, salendo e scendendo nella selva impraticabile… arrivarono. La sconquassata carretta di Dalmasso fu il primo veicolo che aperse la strada 3, che oggi con i suoi 3.000 chilometri parte trionfalmente dalla Piazza del Congresso, cuore di Buenos Aires. Una turistica cintura di asfalto. Ma allora si era soltanto nel 1911.
Quello stesso anno i coadiutori salesiani si ritirarono a uno a uno. Dalmasso rimase. Peggio: con i suoi indi affamati. Astuto come un aborigeno, cavalcatore e tiratore temibile, custodì il bestiame della missione per più di 12 anni. Era l’alimento, il vestito e il denaro degli Onas della Riduzione. Fu il rifugio e l’ospite dei viaggiatori smarriti. Ricordando questa vita straordinaria, diceva nel suo idioma: «mangiavo un solo piatto ». E poi dava la spiegazione di questo mènu con la sua caratteristica risata: «Era un costato di pecora».
Chiese molte volte di essere richiamato. E altrettante volte rimase fedelmente al suo avamposto. Soltanto nel 1923 poté ritornare nella sua patria. La amava con passione. Pensava di darle la gloria dei suoi ultimi anni. Ma forse amava di più la terra dei suoi sacrifici: la Terra del Fuoco. Così, godettero l’allegria della sua vecchiaia per 18 anni Fortin Mercedes e per 7 Bahìa Bianca. E tutti i collegi che avevano bisogno del suo lavoro generoso. Perché tutti lo cercavano e lo esaltavano. E il «véciu» ormai veramente tale, si prodigava instancabilmente. I ragazzi lo sapevano. E frequentavano il suo laboratorio con le loro valigie scassate, oggetti scolastici o giochi rotti. Le loro monellerie trovavano protezione negli angoli della sua «carpanteria».
Aveva una cultura molto modesta. Poche idee, e·tuttavia grandiose. E le visse eroicamente: l’amore a Don Bosco, a mons. Fagnano, ai suoi indi, ai suoi ragazzi. La sua allegria, apparentemente spensierata, nascondeva una bontà profonda. Pialla e scalpello incallirono le sue mani, così come gli infiniti grani del suo Rosario. Nelle sue ore di preghiera borbottava parole umili e fervorose.
Amato e venerato, visse fino al 5 giugno 1948. I suoi occhi azzurri mirarono il cielo: il cielo di Don Bosco, di Fagnano, di Matia Ausiliatrice. E si chiusero con la fissità della sua vita rude, sacrificata ed eroica.