Profilo del salesiano laico signor Cristoforo Catalanotto (5/02/1923-22/04/2007) che per 40 anni fu prezioso aiutante nella biblioteca dell’Università Salesiana di Torino prima e di Roma poi. Burbero, un po’ brontolone ma sempre fedele, esemplare, disponibile. Grande lavoratore nonostante una salute fragile.
Una vita di ricoveri: ha subito più di trenta operazioni, ma con la speranza incrollabile di cavarsela comunque e tornare al lavoro. Lui ci credeva, ed è arrivato a 84 anni. Amava il lavoro come se stesso. Figlio di contadini siciliani, in famiglia aveva assorbito la consuetudine della fatica per campare. Cominciarono subito anche le vicende poco liete che hanno incorniciato tutta o quasi la sua vita. Ancora bambino, infatti, gli morì il papà e lui, Cristoforo, fu da allora chiamato Peppino, come se dovesse rinnovarne il nome, ma anche “il posto di lavoro” e soprattutto “il lavoro del posto”. Era un uso inveterato specialmente nelle zone rurali d’Italia. Di lì a poco però fu con la sorella affidato a una zia, perché le condizioni economiche di famiglia costrinsero mamma Liboria a risposarsi con un vedovo che aveva già sette figli a carico; altri due non ci stavano proprio nel casolare paterno. Le due famiglie erano, tuttavia, unite e profondamente cattoliche: messa, vespri e rosario serale attorno al fuoco del camino. E Cristoforo/Peppino poté assorbire anche la consuetudine della preghiera, oltre a quella già accennata della fatica.
BARBIERE E BANDISTA
Il primo mestiere che imparò fu “il barbiere”, contemporaneamente la zia tutrice lo iscrisse alla scuola di banda dove si cimentò – e non male – con il trombone. Così cominciò la sua carriera nel mondo. Il binomio classico di casa e chiesa divenne un quadrinomio con l’aggiunta di lavoro e banda. Così fino a 19 anni, quando fu strappato dalla routine giornaliera per servire la patria. Ma non gli andò bene. Dei tre anni di ferma, due li passò come prigioniero di guerra in Germania. Per fortuna era in numerosa compagnia: in effetti, dopo la rottura del “Patto d’Acciaio” e il ritiro dell’Italia dalla guerra, i soldati italiani internati in Germania raggiunsero le 370mila unità, e non dovevano spassarsela molto se, divenuti forzosamente lavoratori del Reich, venivano ricompensati con “razioni giornaliere di cibo” a seconda della prestazione. Se era considerata scarsa, niente paga, cioè fame! Né potevano sperare in un trattamento principesco dal momento che venivano ritenuti dei traditori. Cristoforo considerò sempre la prigionia la parentesi più brutta della sua vita, benché anche in quel frangente cercasse di sfruttare il mestiere di barbiere per guadagnare qualche soldo e inviarlo ai familiari. Lo sostenne la fede: pregava molto e invitava i commilitoni a fare altrettanto, soprattutto servendosi del rosario, perché, cercava di convincerli, la fedeltà a quella particolare preghiera li avrebbe presto resi liberi. Quando, come Dio volle, la guerra finì, Cristoforo tornò nella sua Sicilia deciso a sistemarsi, trovando un lavoro stabile ma non… una donzella. Qualcosa, dentro, lo spingeva altrove. Trovò presto il lavoro, complice il suo parroco don Scaturro che lo fece assumere come aiuto barbiere a Calamonaci, e lo accolse in canonica. Lui pagò la pigione facendo il sagrestano. Per quanto concerne la sistemazione affettiva non fece nulla. Sentiva di dover attendere.
EMIGRANTE
Di lì a poco la sorella Rosa gli propose di tentare la fortuna a Milano, dove lei si era sistemata. E Cristoforo/Peppino partì come uno dei tanti migranti interni sognando un futuro migliore. A Milano trovò un commilitone, Luciano Caronni, che lo assunse nel piccolo ristorante che gestiva. Lavorò, come sempre, con coscienza, ma l’idea che la sua strada fosse un’altra gli si affacciava con sempre maggior insistenza turbandogli il sonno. Si decise, così, un giorno a confidarsi con il suo antico compagno d’armi. La sorella di Caronni ne parlò con un sacerdote suo conoscente il quale indicò i salesiani di Torino. Si ritrovò così a Ivrea. I superiori nutrivano qualche dubbio su quel giovanottone che diceva: “O prete o niente”, ma che aveva l’handicap dell’età (era ormai trentenne) e degli studi (doveva in pratica cominciare da capo). Ci provò, iniziando a frequentare il ginnasio, ma il latino, il greco, la matematica lo innervosivano a tal punto che dovette arrendersi. Però ormai si era affezionato a Don Bosco, al clima allegro, alle attività salesiane (musica, canto, sport, teatro, preghiera); sicché rinunciò all’ultimatum “o prete o niente” e divenne coadiutore. Quando cominciò il noviziato si ritrovò con 83 compagni di cui 54 erano come lui: volevano diventare coadiutori.
AIUTO BIBLIOTECARIO, ECC.
Cominciò a Torino-Crocetta, sede della facoltà di Teologia dell’ateneo salesiano poi a Roma, nella sede centrale. Fece il portinaio, attentissimo alle regole di decenza: “Vada a vestirsi!”, comandava a qualche studentessa appena scollacciata. Fu telefonista, barbiere (ovviamente), dattilografo, ma soprattutto prezioso aiutante di biblioteca, col cui direttore parlottava in continuazione e studenti e professori speravano che litigassero, così almeno per qualche tempo potevano stare in pace e studiare. Si portava appresso una voglia indomita di lavorare, ma anche una salute fragile che aveva spesso bisogno di ricoveri ospedalieri e un carattere un po’ forte che a volte si spazientiva, forse perché avrebbe voluto fare di più e meglio. A Roma visse gli ultimi quarant’anni della sua vita, divenendo un benemerito dell’Università. Alla grande biblioteca universitaria offrì il meglio di se stesso, tanto che nel 1994 il Gran Cancelliere lo ringraziò ufficialmente, chiedendogli di restare ancora al suo posto, nonostante l’età, per continuare a servire la “Biblioteca da lei tanto amata è fedelmente servita”, e poco dopo gli concesse la medaglia d’argento al merito.
Ma, a suo dire, una delle gratificazioni più grandi fu per lui il conferimento del ministero dell’accolitato che gli permise di proclamare le letture durante le funzioni liturgiche e distribuire la comunione. Ciò che mai abbandonò fu la pratica del rosario che recitava intero. Costituì l’impegno di tutta la sua vita. “Lavoro e preghiera” è davvero stato il suo motto. Dovette soffrire non poco quando i moderni mezzi computerizzati resero inutile l’enorme lavoro manuale – le decine di migliaia di schedine – che Cristoforo aveva battuto a macchina con certosina pazienza. “Tanto lavoro buttato al vento!”. Accettò insomma che il vento della modernità spazzasse via la sua fatica e imparò quasi con rabbia a computerizzare. Lui solo sapeva lo sforzo che gli era costato reinventarsi a livello lavorativo. Forse anche per questo talvolta borbottava quando studenti o professori non seguivano le regole. Ma si trattava di un “burbero benefico”. Cristoforo era sempre al suo posto, dalla mattina quando apriva la biblioteca, alla sera, quando la chiudeva. Lui era la porta. Attraverso di lui occorreva passare. Un servizio sacrificato e prezioso. Monsignor Chenis, vescovo di Civitavecchia e allora professore all’Ups, lo ricorda “malleabilmente burbero in biblioteca e ansiosamente disponibile in barbieria”. Sì, perché il suo primo mestiere l’ha sempre accompagnato… Non si dimenticano i primi amori.