(1867-1951)
(cfr. Feliciano Lòpez, Coadiutore Giuseppe Caranta in E. Valentini (a cura di) Profili di missionari Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice, Roma, LAS, 1975, p. 298-301).
n. a Valdieri (Cuneo-Italia) il4 ottobre 1867; prof. a San Benigno Can. il 24 settembre 1897; m. a Viedma (Argentina) il 9 aprile 1951.
Trascorse a Valdieri i suoi anni giovanili nel lavoro dei campi. Ormai uomo fatto, il 10 gennaio 1896 entrò come aspirante nella nostra casa di San Benigno Canavese dove fece il noviziato che coronò con la professione triennale il 24 settembre 1897. Durante questo tempo si perfezionò nel mestiere del calzolaio, che poi continuò a esercitare nella stessa casa.
Fatti i voti perpetui, fu destinato alle missioni della Patagonia. In quell’occasione Don Michele Rua, che secondo chiari indizi, nutriva grande stima per l’umile coadiutore, gli formulò un annuncio, che si compi, rigorosamente. Gli disse: «Andrai in America, tornerai in Italia; indi ritornerai nuovamente per lavorare per altrettanto».
Effettivamente, l’ottimo confratello giunse in America al principio del 1900; tornò in Italia nel 1925 e ritornato in America, visse altri 25 anni. E affinché il compimento del vaticinio fosse completo, lavorò indefessamente sino alla fine.
Destinato alla casa di Viedma, fu sagrestano, maestro calzolaio, e incaricato di altre incombenze; particolarmente quelle riguardanti le Figlie di Maria Ausiliatrice che in quel tempo attendevano alla cucina ed alla guardaroba. Qualche anno dopo, in qualità di catechista, fu incaricato di accompagnare i missionari nelle loro escursioni apostoliche. Trascrivo, a questo proposito, ciò che mi scrisse un superiore carissimo, Don Luigi Pedemonte, ispettore delle missioni della Patagonia dal 1912 al 1924: «… Come compagno dei missionari era ideale, e ce lo disputavamo. Evitava le improvvisazioni, e, salvo casi eccezionali, preparava la partenza controllando i mezzi di trasporto, rivedendo il carro, preparando le cavalcature, le provvigioni, itinerari con disegni geografici, preavvisando le case principali dislocate lungo il percorso e segnalando i luoghi di fermata per la missione. Il missionario aveva in Caranta l’angelo previsore e il compagno più desiderato: nelle interminabili traversate passavamo il tempo recitando il rosario ed altre preghiere per le anime del purgatorio e per la conversione dei peccatori disseminati per il deserto. Arrivando a capanne di pastori o case di famiglia, provvisto per gli animali, cui non lasciava mai mancare nulla e mai percuoteva anche quando gli si ribellavano, si metteva subito ad aiutare quella buona gente, approfittando dell’occasione per dar loro consigli ed istruzioni catechistiche. Domandava graziosamente quanto gli era necessario e profittevole per chiarire le loro condizioni religiose, delle quali poi informava il missionario. Veramente era il nostro caro Giuseppe un novello Battista che appianava le vie del Signore. Dotato di occhio clinico, si valeva della sua pratica e dei suoi conoscimenti per tranquillizzare la povera gente che aveva da fare con le malattie e che sovente si dedicava a pratiche superstiziose. Esperto lavoratore del cuoio, componeva finimenti, stivali, scarpe, retribuendo cosi l’ospitalità che si dava al sacerdote. Nelle ore serali insegnava a leggere, a cantare e dava lezioni magnifiche di storia sacra, ecclesiastica e di catechismo. Scrivo non solo quello che udii raccontare, ma quello che ho costatato personalmente nelle lunghe escursioni per le sponde del Rio Negro e dei laghi andini». Fin qui Don Luigi Pedemonte.
I frutti non furono solamente spirituali; dotato di memoria felicissima, ricordava perfettamente topografia e toponomastica delle regioni percorse. A principio di questo secolo le carte geografiche della Patagonia avevano ancora del fantastico. Montagne e altipiani fuori di posto, torrenti che si facevano correre in senso contrario. Fu allora che il superiore delle missioni fece preparare una carta geografica, correggendo le esistenti in una superficie di 200 leghe quadrate della regione precordiglierana del territorio del Rio Negro. Questo lavoro si effettuò in gran parte coi dati che somministrava il confratello Caranta. Esposta la carta geografica in Buenos Aires, fu giudicata di tanto interesse che lo Stato Maggiore dell’Esercito volle acquistarla, e fu ceduta disinteressatamente.
Al ritorno dall’Italia nel 1925, dopo il viaggio accennato, non uscì più coi missionari. I superiori tennero in conto la sua età non più giovanile. Fu allora il factotum in diverse residenze missionarie, specialmente in quella di San Carlos de Bariloche. Compiuti gli 80 anni, non potendo più sopportare il duro clima invernale di quella località cordiglierana, per il suo cuore indebolito, arrivò sul principio del 1949 stremato di forze a Viedma. Curato caritatevolmente nel nostro ospedale San José da quello straordinario coadiutore che fu Artemide Zatti, si rimise prontamente, e due mesi dopo poté venire al collegio ad attendere per ben due anni con esattezza alla portineria.
Povero ed economico fino all’estremo, portava tutto il suo corredo in un sacco e in una cassetta già di mercanzie. Don Francesco Picabea, ex ispettore. scrive che portava sempre con sé il proprio corredo ad ogni muta di esercizi, per evitare spese nel caso di trasferimento. Poco tempo prima di morire confessava non aver più portato scarpe nuove dal 1924. Sebbene molto pulito, usava gl’indumenti fino all’ultimo; lui stesso li rattoppava con filo e pezze che trovava. La sua economia arrivava fino ad eccessi, graziosi alcuni, e altri di tal natura, che solo lui era capace di affrontare col suo eroico spirito di mortificazione. La sua resistenza alla fame, alla sete, al freddo o al solleone, senza alterarsi, era famosa tra noi. Lo si sarebbe giudicato insensibile, tanto più che mai fu udito commentare tali patimenti.
Lo spirito di lavoro del signor Caranta fu quello di un degnissimo figlio di Don Bosco. Tutti coloro che l’hanno osservato prima del 1949, specialmente i nostri ispettori, affermano concordi che la sua giornata era completa. Approfittava, sempre agile e ordinato, diligente e calmo, di tutti i ritagli di tempo. Non lo si vide mai inattivo. Non mi fermo a parlare del suo spirito di ubbidienza, che era proporzionato alla sua povertà, né della sua riservatezza. Una suora, che per ragioni di ufficio dovette trattare sovente con lui, dice: «Con il signor Giuseppe le parole necessarie e nient’altro», e un’altra: «Gli ho visto gli occhi solamente sul letto di morte».
Il ricordo più grande che lascia il confratello Caranta è quello del suo spirito di profonda pietà. Don Bosco fu definito l’unione con Dio. Ebbene, io confesso candidamente che riesco a capire come l’unione con Dio di Don Bosco sia stata superiore in profondità, intensità e carismi a quella di questo suo degno figlio; ma non la posso immaginare superiore in continuità. Negli ultimi anni aveva perduto la nozione del tempo e si svegliava per tempissimo. Non avendo orologio, per timore di perdere la meditazione, scendeva subito in cappella, a volte anche poco dopo la mezzanotte, e rimaneva a pregare, sempre immobile, in ginocchio, nella caratteristica posizione salesiana, fino all’arrivo della comunità. A San Carlos de Bariloche un eccellentissimo Vescovo, che tutti gli anni ivi passava alcuni giorni di riposo, rimaneva buon tempo in cappella, dopo la messa, per edificarsi, secondo sua confessione, osservando il fratello sacrista.
Maturo per il cielo, sicuro della sua prossima fine per venirgli meno le forze e per la fede nelle parole di Don Rua, sovente parlava del suo vicino trapasso, senza timore, con filiale confidenza nella bontà Divina, e con evidente ansia del suo Signore.
Lasciò la portieria in sul finire dell’anno 1950 e ritornò all’ospedale «San José». Senonché si riebbe alquanto. Ed allora domandava con insistenza una occupazione; gli rispondevo che il suo lavoro era pregare. Si rassegnava. Indubbiamente prendeva sul serio le mie parole, poiché pregava di continuo e senza posa, e quasi sempre inginocchiato davanti al Santissimo Sacramento.
Il suo ultimo atto prima di incamminarsi definitivamente verso il tramonto fu un’opera eroica di carità. Quando seppe che solo un miracolo poteva salvare il confratello Artemide Zatti, che lo precedette alla tomba di tre settimane, intensificò la sua preghiera domandando al Signore che portasse via lui, e guarisse il buon Zatti, «perché, diceva, Zatti è necessario, mentre io non servo più a nulla».
A ragione mons. Giuseppe Borgatti, presidente del Tribunale Diocesano per la causa di beatificazione di Zefferino Namuncurà, disse quando il confratello Caranta ebbe finita la propria deposizione come teste: «Più tardi ci dovremo riunire per la causa di beatificazione del signor Giuseppe».
Morì il 9 aprile 1951.