Accorsi Giulio

nato a Pieve di Cento (BO) il 14 novembre 1910, morto ad Arese (MI) il 2 agosto 2010 a 99 anni di età, 83 di professio­ne religiosa.


Sorridete, pensando a me: sono nell’incanto di Dio.

Gesù disse ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”. (Mt 16,24-25)


Non avrebbe voluto arrendersi


La morte ha colto il signor Giulio Accorsi nella Casa Don Quadrio di Arese, la nostra infermeria ispettoriale, il 2 agosto 2010. I suoi ultimi giorni erano stati uno spegnersi lento; quella notte, poi, si era sentito male. Don Modesto Bertolli gli ha amministrato l’Unzione degli infermi. Mentre pregava le Litanie dei Santi, non ha più respirato.

Era nato a Pieve di Cento (Bologna) il 14 no­vembre 1910. Gli è mancato per poco il tra­guardo dei 100 anni, che aspettavamo in tanti: era il decano dei Salesiani dell’Ispettoria, non poteva finire la sua corsa a pochi metri dal tra­guardo come il grande marciatore Dorando Pietri alle olimpiadi di Londra del 1908!

Abbiamo cercato di sorreggerlo negli ultimi giorni, quando età e malattia lo stavano fer­mando in pista. Alcuni confratelli erano andati a trovarlo il giorno prima che morisse: «Coraggio, signor Accorsi, l’aspettiamo per la festa. Mancano pochi giorni!». Rispose con un filo di voce, rassegnato, forse stanco di combattere: «Non so, non sol». E ai nipoti che gli avevano telefonato da Bologna: «Saluta­temi tutti, perché io me ne vado…».

Erano i giorni della sua agonia, ma noi non li sentivamo tali. Abbiamo pregato con lui, ha accolto la benedizione di Maria Ausiliatrice, con fede. Era la benedizione raccomandata da don Bosco, la preghiera di prossimità a chi si accosta al mistero della morte, che tan­te volte ha visto il signor Accorsi accanto ai suoi confratelli nella lunga vita trascorsa alla Casa S. Ambrogio di Milano e nei sei anni ad Arese, ospite di Casa Don Quadrio.

Lo abbiamo lasciato che stava vivendo nell’o­ra della morte, con un saluto che per noi era un arrivederci in settimana, per lui invece al Paradiso, dove stava incamminandosi, dopo giorni di letto, che hanno prosciugato le sue energie di uomo che non avrebbe voluto ar­rendersi, com’era nel suo carattere, nel suo stile di vita.

Festeggiando il suo ottantesimo complean­no, aveva accettato, suo malgrado, la torta con le candeline, che gli aveva portato la Daniela.

Daniela era la giovane impiegata assun­ta all’istituto S. Ambrogio il 1 marzo 1991 per succedergli nell’ufficio di contabilità. Per questo il signor Accorsi l’aveva forse considerata, in un primo tempo, la sua “rivale”. Così, desideroso di essere ancora all’altez­za della mansione che aveva esercitato dal 1927, aveva imparato, a 85 anni di età, l’uso del computer. In poco tempo aveva appreso l’uso del programma di contabilità. «…E se me l’avessero chiesto prima, avrei imparato qualcosa di più!», commentava.

Era per tutti “il signor Accorsi”, l’uomo della contabilità, al suo posto in ufficio da sempre, da quando l’obbedienza religiosa, nel 1927, l’aveva provvisoriamente assegnato alla Casa di Milano, dove rimarrà fino al 2004: una lunga stagione durata 77 anni!


Quale obbedienza?


Sembrerebbe quasi che il voto di obbedienza non sia esistito per lui: credo invece che sia stata tutta una vita religiosa di difficile obbe­dienza, considerando tutti i cambi di diretto­ri ed economi con i quali ha dovuto collabo­rare. E’ facile immaginare la pazienza che ha dovuto portare con “superiori” (così li chia­mava) sempre nuovi, ognuno dei quali voleva dire la sua. Eppure, quando gli si domandava del passato, dei suoi superiori parlava sempre bene, con rispetto e benevolenza… oppure taceva.

Voto di stabilità, il suo, come nei monasteri benedettini? No, voto di fedeltà ad una Casa che ha amato, considerandola madre e spo­sa, famiglia. La Comunità era la sua vita, la viveva nella fedeltà agli orari, nei momenti di gioia e in quelli del dolore. L’amava come si ama la Chiesa, accettandone le rughe che in­vecchiano il volto.

Quando la malattia l’ha allontanato dal S. Ambrogio, ha provato un senso vivo di no­stalgia, un rammarico per non esserle più uti­le, per essere “in esilio” nella Casa Don Quadrio, che considerava la tappa finale della sua vita: casa dove si va per morire.

Vi è rimasto per sei anni, vivace nonostante i malanni, non in esilio, ma tra gente che lo se­guiva con affetto, con simpatia, con ammira­zione per la sua voglia di continuare a vivere.

“Non morirò una vita non vissuta”, titola una poesia di una scrittrice russa. Il signor Ac­corsi ha vissuto sempre intensamente i suoi giorni, perché ciò che gli era stato dato come germoglio diventasse frutto.

Don Modesto Bertolli testimonia il suo grazie al personale per i gesti di attenzione e di cura che avevano per lui. Non li ricercava, ha vo­luto essere autosufficiente, indipendente, fino a che ha potuto. Da parte sua era vicino ai confratelli che venivano ricoverati in ospedale: non solo si informava, ma si recava a trovarli.

Sempre primo a scendere in cappella, era sol­lecito nell’accendere le candele per la Messa, nel curare i fiori, nella recita del Rosario o nell’adorazione eucaristica.

Al mattino era anche sollecito nel portare il giornale in comunità: la lettura del quotidia­no era il suo modo di esprimere una curiosità mai spenta per la vita, la volontà non tirare i remi in barca, come risulta tanto facile agli anziani…

E la sua Comunità non l’ha abbandonato. Non potendo garantirgli la tranquillità di una assistenza infermieristica quotidiana, in accordo con i familiari, la Comunità lo aveva affidato alle cure della Casa Don Qua­drio, conservandogli però sempre libera la sua camera e il suo ufficio al S. Ambrogio. Li ha sempre trovati “suoi” quando don Bombardieri o altri confratelli andavano ad Arese per riportarlo in Comunità in occa­sione delle feste religiose importanti, come il Natale e la Pasqua, o nel giorno del suo compleanno.

La camera era ordinata, a posto, come ordi­nato e sempre a posto nella persona era lui. Lui stesso ne curava la pulizia, in osservanza all’antica regola della tradizione salesiana: in camera mai nessuno, “né lui assente né lui presente”. Aveva tutto il materiale pronto per l’uso, al signor Fiorino sono andate in eredi­tà le scope che teneva sempre a disposizione.

La camera era modestissima, con indumenti ben disposti nell’armadio, le camicie stirate, magari con qualche rammendo, perché nien­te doveva esser buttato via.

Aveva un maglioncino azzurro per la stagio­ne invernale, verde per la primaverile. Non aveva grandi ambizioni per i vestiti. Non sa­peva cosa significasse vestire griffato. Cura­va l’abbigliamento solo quando andava alla Scala per una prima o per una prova genera­le: un amico, che conosceva la sua passione per la lirica, gli regalava i biglietti d’ingresso, rendendolo felice.

«Serba ordinem et ordo servabit te». Era uno dei motti da mandare a memoria in novizia­to. E il signor Accorsi era uomo dell’ordine: in camera, ogni cosa al suo posto, qualche li­bro, cd di musica operistica, che ascoltava nei momenti (pochi!) di riposo, una collezione di francobolli, alcuni quadri, uno di pregevole fattura, ora nella biblioteca dei salesiani.

Camera modesta, linda, che trasudava po­vertà, come quella dei confratelli coadiutori cresciuti alla stessa scuola salesiana: allenati al lavoro, alla puntualità negli orari, a non attaccare il cuore alle cose, ma al Signore.

Abbiamo accennato alla passione per l’opera lirica e la musica classica in genere. Un confra­tello, a questo proposito, ricorda la cultura del nostro Accorsi: “Pur non avendo compiuto studi superiori, il signor Accorsi si poteva veramente dire un uomo di cultura. Ha coltivato infatti una conoscenza non comune per l’opera lirica. Grazie agli amici che gli procuravano l’ingresso gratuito al Teatro alla Scala (mai avrebbe speso un centesimo per ciò che esula­va dalla vita religiosa!), ha potuto gustare l’arte dei migliori cantanti, direttori d’orchestra, registi… Sapeva istituire con competenza con­fronti e dare competenti valutazioni. «Pensate – commentava – : un tempo ci proibivano di andare a questi spettacoli, li considerava­no pericolosi per un religioso. Ma come può essere male ciò che eleva lo spirito e educa i sentimenti e il gusto della bellezza autentica?». Aveva anche il gusto dell’appassionato: cono­sceva a memoria i libretti d’opera, conservava le locandine originali degli spettacoli…

Ma la musica non era l’unico aspetto della cultura del signor Accorsi. Quando gli era stata data occasione, aveva anche gustato le bellezze delle città d’arte e, con la sua memo­ria felice, le ricordava lucidamente a distanza d’anni; di Milano, poi, aveva una conoscen­za davvero palmo a palmo: vie, monumenti, mezzi di trasporto, curiosità…

Ad Arese, tra le sue occupazioni quotidiane, c’era quella di sfogliare alcuni libri d’arte che gli erano stati donati. E in passato aveva coltivato anche la filatelia. Ancora: la lettura dei quoti­diani dice quanto fosse viva la sua cultura come impegno, direbbero i classici, a “non considera­re estraneo a sé nulla di ciò che è umano”.

E non è forse cultura il gusto per il vino buono e genuino, scelto con cura e sorseggiato con ge­nerosità, ma sempre con disciplinata misura?”

Insieme alla cultura, il medesimo confratello ricorda anche la vita di preghiera fedele in comunità e la pietas verso i defunti: “fin­ché ha potuto, il signor Accorsi metteva nella sua passeggiata domenicale una visi­ta al Cimitero Maggiore di Musocco, alle tombe dei Salesiani: per pregare, per ricor­dare, per prepararsi al grande passo… Di qui forse attingeva quella tranquillità che osservai anche la notte che lo portammo d’urgenza all’Ospedale Fatebenefratelli: il medico gli disse che bisognava operare immediatamente e che l’operazione era ri­schiosa e gli chiese, come di norma, se dava il suo consenso. «Va bene – disse senza esi­tare – basta che mi diate il tempo per con­fessarmi». E prontamente, con semplicità, fece la sua Confessione ad uno dei confra­telli presenti”.


Salesiani Coadiutori, la magnifica invenzione di Don Bosco


I Coadiutori non sono una “razza in via d’estinzione” ne soffrirebbe la Comunità sale­siana, che non sarebbe più quella sognata da don Bosco, con sacerdoti, chierici e, appunto, coadiutori.

Dicono le Costituzioni all’art. 45: «La pre­senza significativa e complementare di sale­siani chierici e laici nella comunità costituisce un elemento essenziale della sua fisionomia e completezza apostolica».

Il Rettor Maggiore don Egidio Viganò più volte aveva richiamato questa immagine di comunità salesiana, “rallegrata” dalla pre­senza di fratelli salesiani coadiutori, una del­le invenzioni più originali di Don Bosco.

Commemorando cento anni della morte del Santo al Teatro alla Scala di Milano, era lo stesso Presidente del Senato, Giovanni Spa­dolini, a sottolineare questa intuizione di don Bosco del salesiano coadiutore, una figu­ra nuova di religioso “testimone del Regno di Dio” presente nel campo del lavoro, accanto ai giovani di cui è educatore e formatore.

Nella Casa di Milano sono state presenti fi­gure di salesiani coadiutori di grande cara­tura religiosa e professionale, che hanno ar­ricchito la comunità della loro preziosa testimonianza.

I salesiani di una certa età ricordano volen­tieri la figura del “Bociu”, il signor Giuseppe Nidasio, maestro della grafica e indimentica­bile educatore in oratorio, del maestro del­la legatura d’arte, Pio Colombo, dei signori Calza, Cibien, Zuppiroli, che dirigevano la meccanica, la falegnameria, la sartoria.

Il signor Accorsi è stato il più longevo e il più presente, il riassunto della storia della Casa, ma anche dell’Ispettoria Lombarda, nata nel 1926, quando egli entrava in noviziato nella Casa San Bernardino di Chiari. Maestro dei novizi era don Antonio Sala, morto giovane, a 42 anni di età. A inaugurare il noviziato e, alla fine dell’anno, ad accogliere le prime pro­fessioni venne il beato don Filippo Rinaldi: il signor Accorsi lo ricordava sempre con gioia riconoscente, per la sua figura buona, pater­na, luminosa di santità.

Come abbiamo già ricordato, alla Casa S. Ambrogio di Milano il signor Accorsi era giunto provvisoriamente, subito dopo la prima professione, come “aiuto economo”. Era un precario… che non si è più mosso da Milano.

Confratello stimato per la sua competenza tecnica, il signor Accorsi – “il ragioniere”, come lo si chiamava tra il serio e il faceto – per anni è stato il braccio destro dei tanti eco­nomi succedutisi in quest’opera complessa e frammentata; con discrezione ha saputo dare sicurezza e continuità alla gestione e all’am­ministrazione.

A don Francesco Viganò, uno dei tanti Diret­tori che si sono alternati alla guida dell’Opera, aveva detto, incontrandolo, al primo gior­no: «Direttore, sappia che ne sono già cambia­ti dieci prima di lei!». Come per dire: «Occhio, prudenza e umiltà». Don Francesco in lui ha trovato un ottimo collaboratore, uno sul qua­le contare in ogni occasione: dalla cura dei fiori agli impegni di segreteria e contabilità, dove era un asso!


Le cinque “prime pietre”


Don Arturo Murari, nel suo libro “Don Bo­sco è venuto a Milano”, parla di cinque “pri­me pietre” poste in via Copernico. La prima, quando dalla Casa di Via Commenda, che fu la “Betlemme salesiana” di Milano, la Comu­nità è passata al grande prato deserto di via Copernico, dove il 4 settembre 1895 il cardina­le arcivescovo di Milano, beato Andrea Carlo Ferrari, con a fianco il cardinale patriarca di Venezia, Giuseppe Sarto, poi papa san Pio X, e il beato don Michele Rua, metteva la “prima pietra”, che dava inizio all’Opera Salesiana di S. Ambrogio. La seconda e la terza sono sta­te quelle per l’inizio della costruzione dell’o­ratorio (1899) e della basilica di S. Agostino (1900). Giulio Accorsi non era ancora nato.

Il signor Accorsi era invece già Salesiano, presente tra i fedeli e i confratelli, quando al S. Ambrogio si inaugurava il busto dedicato a don Bosco nel giorno della sua beatificazione, nel 1929.

Ed era presente nel maggio del 1934, quando nella basilica di S. Agostino è stata posta in modo solenne una insigne reliquia ex ossibus del santo, dono prezioso del cardinale Schuster, un altro beato che ha amato in modo privilegia­to i Salesiani di Milano. Il Cardinale era già ve­nuto in S. Agostino poche ore dopo la canoniz­zazione di don Bosco da parte di papa Pio XI, nel pomeriggio del 1 aprile 1934, per cantare un solenne Te Deum di ringraziamento al Signore.

Per la quarta “prima pietra”, il 25 aprile 1934, il signor Accorsi non poteva mancare: era quella della scuola di formazione profes­sionale di via Tonale. A benedirla, ancora una volta, il cardinale Schuster, che inaugu­rerà la scuola il 30 maggio. Il Cardinale era un vero innamorato di don Bosco, che con­siderava il san Benedetto dei tempi moderni.

L’ultima “prima pietra”, la quinta, è stata posta per il palazzo delle Opere Giovanili e Sociali, un palazzo cresciuto con l’aiuto di un grande industriale e sportivo, Umberto Dei. Si completava così a Milano il “monumento vivente a don Bosco”.


Si identificava con la storia della Casa


Dal 1927 in poi, il signor Accorsi ha vissu­to in prima persona la storia della Casa nei suoi piccoli e grandi avvenimenti, nei tempi di pace e in quelli della guerra, nell’avvicen darsi delle persone e degli eventi, nel crescere delle vocazioni religiose e sacerdotali: un numero talmente alto di vocazioni – centi­naia di giovani – da far esclamare ala gente che il S. Ambrogio era davvero una casa di don Bosco, una Valdocco dei nuovi tempi, “un seminario” della Congregazione e della Chiesa.

Non solo: uno spazio educativo nell’oratorio e nella scuola, dove si sono formate persona­lità eccezionali nella vita sociale e politica, nella scuola, soprattutto nella realtà ecclesia­le e nella famiglia.

Il signor Accorsi ha avuto modo di conoscere in vita e di partecipare all’avvio del proces­so di canonizzazione del servo di Dio Atti­lio Giordani (1913-1972), che ricordava con stima e affetto come un padre che aveva la stoffa del salesiano oratoriano.

La memoria del signor Accorsi – una memo­ria prodigiosa – si era mantenuta viva nel tem­po e quando si nominava un salesiano, subito alla mente affioravano le memorie di lui. Ri­cordava con stima e amicizia i direttori don Ivo Paltonieri e don Plinio Gugiatti – per non parlare che di quelli già in paradiso – e tra i confratelli conservava viva la memoria, insie­me a quella di tanti altri, di don Francesco Be­niamino Della Torre, un salesiano originale, che negli anni della Resistenza aveva aiutato i partigiani del CLN a radunarsi segretamente nella casa dei Salesiani, a volte giungendo ad azioni “sconsiderate”, come la sera che aveva nascosto armi tra i giochi del “Bociu”. Ora, sotto il portico del S. Ambrogio, una lapide ricorda quelle riunioni segrete nella Sala Ver­de dell’istituto: il signor Accorsi fu tra quelli che accolsero uno di quei partigiani, Sandro Pertini, divenuto Presidente della Repubblica, tornato con commozione al S. Ambrogio il 25 aprile 1980 per inaugurare quella lapide.

Il signor Accorsi ricordava con un buon sen­so di umorismo il primo giorno dell’entrata dei Salesiani ad Arese, 55 anni fa, il 29 set­tembre, quando precipitosamente, insieme a don Melesi, dovette caricare su un camion piatti e posate per la cena solenne dei “barabitt”: le Suore si erano accorte che in cucina non c’era più niente. Andandosene, quelli del Beccaria, il riformatorio statale che prima gestiva l’opera, avevano portato via tutto.

E, ancora, ricordava don Pietro Lajolo, pre­vosto di S. Agostino, che durante la guerra aveva nascosto nella casa salesiana il nipote Davide, futuro direttore de “L’Unità”, che da ragazzo aveva studiato dai salesiani a Castelnuovo Don Bosco.

“Signor” Accorsi! I confratelli salesiani coa­diutori non hanno davanti al nome il “don”, che si dice per i sacerdoti, ma la parola “signor”. Per chi li conosce e li avvicina è un ti­tolo di grande rispetto, potremmo quasi dire “nobiliare”. Non signori nel senso di ricchi, – i sciuri de Milan -, ma di persone capaci di fedeltà agli impegni assunti con Dio, con la Chiesa, con gli uomini; gente laboriosa, com­petente, onesta, rispettosa degli altri, respon­sabile e disponibile al servizio, al dono. Per questo sono detti “signori” i coadiutori che lavorano spesso nel nascondimento, in ruo­li di secondo piano, ma preziosi per il buon andamento della Casa. Il signor Accorsi ha sempre lavorato a piano terra!

Nell’ufficio, dove ha accolto migliaia di stu­denti e di genitori – era lui che incontrava per primo i ragazzi interni – ha accolto anche un beato, don Carlo Gnocchi, e “un prete da galera”, don Luigi Melesi, cappellano per oltre trent’anni del carcere di San Vitto­re: «Fu lui che 66 anni fa in piena guerra mi ha accolto in istituto, mi assegnò il numero di matricola e a me – spaesato e intimorito in un collegio così grande – diede le prime indica­zioni e incoraggiamenti».

Teneva i registri con una precisione impecca­bile. Aveva memoria dei ragazzi “buoni” ma anche di quelli vivaci. Riguardando i registri, usciva in espressioni spontanee: «Quello, sì, che ci ha dato da fare!». “Per me è stupefa­cente – osserva un confratello – che il signor Accorsi ricordasse con tanta nitidezza i ra­gazzi passati al S. Ambrogio, che sarebbero potuti essere per lui solo numeri di matricola e rette pagate… La memoria, oltre a nutri­re la sua cultura, era un dono che propiziava le relazioni e lo aiutava a portare nel cuore e nella preghiera i tanti giovani che realmente serviva, da una posizione tanto pastoralmen­te defilata eppure fortemente partecipe”.

Nell’amministrazione non gli sfuggiva nulla: i suoi conti erano al centesimo. Tranne una volta.

Me lo ha raccontato la Daniela, ricordando il giorno in cui, spostando un armadio, il signor Accorsi ha trovato non la dramma del Vangelo, ma una moneta di dieci centesimi. Ha fatto festa, erano quelli che erano andati smarriti e che gli aveva dato quella certa signora…

Per il resto, contabilità sempre in ordine: se gli si chiedeva in qualsiasi giorno di rendere conto dei suoi “talenti” – le varie entrate del­le iscrizioni dell’Istituto o della casa estiva di Cesenatico… – da buon amministratore era in regola, tutto a posto!

Don Camillo Giordani, un’altra giovane (classe 1923!) “reliquia” dell’Ispettoria, che ha festeggiato da poco i sessantanni di sa­cerdozio, ha un ricordo pieno di commozio­ne del signor Accorsi: «L’ultimo incontro con il signor Accorsi l’ho avuto tre o quattro anni fa ad Arese, al termine delle esequie di don Piero Viganò, quando il signor Giulio irruppe (letteralmente!) in sacrestia e mi abbracciò, dicendo a gran voce: “Non si salutano più i vecchi amici?!”. Cercai di giustificarmi da­vanti al signor Ispettore e ai concelebranti di quell’affettuoso gesto, dicendo: “Il signor Ac­corsi è stato tra i primi a guidarmi nella mia vocazione salesiana”. E lui, pronto: “Non esa­geriamo!”. In realtà io lo conobbi all’Oratorio di S. Agostino quando avevo sette, otto anni. Era l’assistente dei “Luigini”. Ma ne apprez­zai di più la salesianità quando nel 1935 en­trai nel Collegio di Sant’Ambrogio. Era “amministratore” alle dipendenze del “prefetto” don Carlo Lecchi. Gestiva anche una modesta rivendita di cancelleria in un piccolo ufficio sotto il porticato accanto alla Cappella in­terna del S. Ambrogio. Negozietto (si fa per dire…) che alla domenica pomeriggio si tra­sformava per noi convittori in una rivendita di dolciumi (caramelle, liquirizia…). A me aveva riservato un incarico che mi entusiasmava: dovevo tenere la “scatola prò Missioni”. E i miei compagni erano generosi nel donare una delle loro caramelle per i missionari. E con il signor Accorsi gioivo se la raccolta era stata abbondante… Quanti piccoli risparmi spediti poi ai nostri missionari!

Altro incarico di fiducia. Alla domenica pome­riggio arrivavano i parenti a trovare i loro figli in collegio (certamente non a mani vuote…). Il signor Accorsi dava man forte al portinaio, il coadiutore signor Borino (don Bosco: “ Un sa­lesiano portinaio è un tesoro per una Casa!”). I parenti li accoglieva lui, il signor Accorsi, con tanta gentilezza e cordialità. Li invitava ad ac­comodarsi in parlatorio.

A me e ad un mio compagno il gioioso correre a chiamare i ragazzi interessati alla visita.

E il signor Accorsi l’ho conosciuto e visto sempre così: incedere svelto, giovanile, si­gnorile nel tratto, aperto con tutti, sempre aperto al sorriso e alla battuta di spirito. Intelligente. Mi pare coltivasse anche una grande passione per la musica lirica. Per me, allora giovane allievo del ginnasio S. Ambro­gio di Milano, una bella testimonianza. Gra­zie, signor Accorsi!”.


Rifuggiva dalle formalità: era “vero”!


Ha sempre manifestato educazione e rispetto verso tutti: modalità che non ha ridotto a semplici formalità, ma che sono state espres­sione di quello stile di famiglia che sa riconoscere i ruoli e sa offrire sempre una collaborazione leale e sincera, senza finzioni. Chi ha lavorato con lui, ha trovato un confratello competente, franco nella relazione, riservato nello svolgimento del lavoro, esigente.

La Daniela, come abbiamo ricordato, ha iniziato la collaborazione con lui dal 1 marzo 1991. Confessava, in un’intervista strappata­le mentre continuava il suo lavoro – in que­sto, fedele al signor Accorsi – che all’inizio gli sembrava un po’ “tiranno” sugli orari, sulla precisione dei registri; ma riconosce di avere imparato molto da lui, acquistando sicurezza nelle cose da fare.

Con il crescere della conoscenza non lo sen­tiva più così tiranno, anche se era sempre ri­servato. «Sembrava che da lui non trasparisse mai un emozione, un sentimento: me lo sono ritrovato, quasi nascosto in un angolo, al mio matrimonio. In seguito, lo ricordo preoccupato per la mia salute e per quella della mia Fran­cesca, che avevo partorito anzitempo. Forse anche per queste difficoltà, s’informava di lei, sorrideva incontrandola, sentendola quasi una nipotina, pur avendo l’affetto della nipote Ines e di Luciano, gli unici legami che gli erano ri­masti con la famiglia».

Della propria famiglia non parlava mai, se non con alcuni confratelli, quasi di sfug­gita: si sentiva della Famiglia Salesiana di don Bosco, alla quale apparteneva dall’età di 17 anni.

Il papà si chiamava Primo e la mamma Argia Corazza. Il paese natale, Pieve di Cento (Piv d’Zènt), è al confine tra Bologna e Ferrara. In Wikipedia si legge un lungo elenco di persona­lità di spicco della città: artisti come il Guercino, di cui Accorsi ricordava volentieri e con precisione le opere, atleti, anche un condutto­re televisivo… Ma non si legge il suo nome: signor Accorsi. Troppi anni via dal paese, in un lavoro anonimo, a servizio degli altri. Tutto questo non fa storia agli occhi degli uomini, bensì a quelli di Dio, che non dimentica, ha buona memoria per ricordare il bene che ogni persona compie nella sua vita.

In ufficio con Accorsi batteva un cuore sale­siano. La gente che ne varcava la soglia, sape­va di trovare accoglienza, una risposta al pro­blema, a volte una parola brusca, ma sincera, prudente, tale da non rompere i rapporti con nessuno.

In Comunità non era un “ingenuotto”: sape­va distinguere, giudicare. A volte era critico di fronte ad atteggiamenti e a stili di vita di confratelli che riteneva poco salesiani, ma era anche pronto a scusare, perdonare, a com­prendere e a vedere il positivo.

A tavola, pur emiliano che gustava la buona cucina, accettava quello che c’era ed era sem­pre misurato.

In Casa don Quadrio ogni tanto si lamentava del menu da ammalati: avrebbe preferito del buon brodo o una lasagna come la prepara­va la “rezdora” di casa, la regina della cucina emiliana, che stendeva la sfoglia in forma “rotonda come la luna e leggera come una carezza”. Da lì nascevano cappelletti, tortelli, tagliatelle per la mensa familiare, una sorta di mensa eucaristica, se vissuta con amore. Sua preferenza, tuttavia, erano gli spaghetti al pomodoro.

Sapendo che «questa vita è fatta in modo tede che dobbiamo mangiare più assenzio che mie­le», come affermava san Francesco di Sales, il signor Accorsi si preoccupava di servire a ta­vola del buon vino per i confratelli. Si faceva portare in macchina, lui che non aveva la pa­tente e usciva di rado da casa, nelle cascine, dai contadini, per acquistare quello genuino, da far contenta la sua Comunità.

Cantiniere per anni, a Milano, era stato il si­gnor Giuseppe Renzi, che godeva della fama di annacquare il vino con acqua, per cui dai giovani chierici era chiamato “il signor Tagliavini”! Il signor Accorsi considerava sacri­legio il farlo. E i confratelli, quando lo vede­vano arrivare in sala da pranzo con la bot­tiglia in mano, sapevano di bere dell’ottimo vino, da nozze di Cana, garantito, d.o.c.

Aveva un’altra debolezza: gli piaceva il pane “corno”, il pane ferrarese, che gli ricordava la sua adolescenza a Pieve di Cento, un pane che solo un fornaio cuoceva a Milano. Ogni tanto se lo faceva portare o andava a prenderlo.

Quasi cent’anni di vita raccolti in poche ri­ghe.


Tutto qui?


A dire il vero, il Signor Accorsi lo ritroviamo tutto nel sorriso dell’immagine stampata a suo ricordo. Non è una delle solite immaginette, ma ce lo presenta radioso sotto il porticato della “sua” Casa.

Porticato e colonne, che un tempo erano cu­stodite da ragazzi in momentanea sospensio­ne del gioco per ripassare la grammatica o la lezione di storia, castigo tradizionale dei professori di un tempo, quando saltare, an­che per poco, la ricreazione era una pena a dir poco… “infernale”!

Tutto nel suo sorriso, perché di scritti suoi, personali, non abbiamo trovato niente nella sua camera a Milano e in quella di Arese. Ri­servato anche in questo! La sua vita doveva essere consegnata a Dio, non alla lettera che noi Salesiani chiamiamo “mortuaria”.

Il   sorriso dice comunque una vita vissuta, nella gioia di una risposta ad una chiamata di Dio che non lo ha lasciato solo, ma lo ha posto in una comunità di confratelli dove si è trovato di casa, in famiglia.

Una vita non inutile! Deve essere dramma­tico trovarsi negli ultimi momenti a mani vuote. Durante la concelebrazione per le esequie nella basilica di S. Agostino, nono­stante il periodo estivo, erano davvero tanti i sacerdoti e i coadiutori a pregare per lui, a raccogliere la sua testimonianza di cristia­no, di religioso, di salesiano che non ha vis­suto inutilmente.

A qualcuno pareva di vederlo ancora con la sua borsetta in pelle mentre si recava in tutta fretta in banca o in posta (a nessuno venne mai in mente di fermarlo per una rapina o un furto, tanto passava inosservato). Ad altri tornava in mente mentre bagnava i fiori, che altrimenti, per la disattenzione dei confratelli, sarebbero seccati. Altri lo ricordavano nel­la sua puntualità alla vita di comunità e nella fedeltà alla vita di preghiera. Oppure quan­do, furtivamente, a metà mattino o a metà pomeriggio, si permetteva un’indulgenza: un buon sorso di vino.

Che fosse lì il segreto della sua longevità? Non lo sappiamo, mentre siamo certi che la sua vita al S. Ambrogio è custodita “nella memoria dei confratelli e di generazioni di allievi e genitori che ha incontrato, svolgen­do mansioni di secondo ordine, con grande amore alla Casa e alla Congregazione”.

Sono le parole dell’ispettore nell’omelia: “Oggi si è presentato al cospetto di Dio, di cui tutti abbiamo profonda nostalgia, e si è lasciato leggere nel profondo del cuore, dopo l’allenamento, durato una vita, dell’esame di coscienza quotidiano che lo ha predisposto a piacere a Dio piuttosto che agli uomini… San Giovanni nella prima lettera scrive: «Il Figlio di Dio ha dato la sua vita per noi, quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli». Tutto di noi stessi deve essere dona­to: tempo, forze, risorse, il bicchiere d’acqua offerto con amore, meglio ancora un bicchie­re di vino come Accorsi faceva. Amare con i fatti e nella verità rassicura il nostro cuore, donando la pace”.

Quella pace che abbiamo letto in tanti sul volto di Giulio, pardon, del signor Accorsi. “Gli chiediamo di intercedere presso il Si­gnore per il bene della sua casa e dell’Ispettoria”. Così concludeva il signor Ispettore. A lui ci uniamo, pregando, perché il Signore, con Maria Santissima di cui era devoto, lo ricompensi per il tanto bene compiuto nella nostra Comunità di Sant’Ambrogio: dei 113 anni di vita della Comunità, il signor Accorsi ne ha vissuto 83. Un primato da “Guinness” della vita religiosa.

Dal Cielo, la nostra vera Casa, dove il Padre ci attende a vivere felici in eterno, il signor Accorsi continui a guardare alla “sua” casa di quaggiù con il suo sorriso amabile e discre­to. Con lui, pregando, sorridiamo anche noi, sapendolo ormai nell’incanto di Dio.


La Comunità Salesiana di Milano S. Ambrogio

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