Cfr. Il salesiano coadiutore. Storia, identità, pastorale vocazionale, Roma, Editrice SDB, 1989 (le pagine indicate in parentesi quadra indicano la pagina esatta del volume in edizione cartacea).
Nota bene. Esponendo in poche linee un vissuto assai lungo e complesso, le proporzioni tra i vari periodi e le forme via via assunte rimangono, per questo, segnate e qua e là anche piuttosto alterate. La realtà del religioso laico si potrà comprendere meglio se inserita nel suo giusto contesto in qualcuna delle «storie della vita religiosa» oggi disponibili nelle varie aree linguistiche. Ad es. L. Holtz (1986) in lingua tedesca, A. Lopez Amat (1987) e J. Alavarez Gomez (1989) in spagnolo, J. Lozano (1988) in inglese, Augé-Sastre-Borriello (1988) in italiano. Ad esse rimandiamo, invitando alla lettura. Questi brevi cenni volevano fra l’altro motivare questo invito. [pag. 21]
1. CENNI STORICI SUL SALESIANO COADIUTORE [pag. 18]
1.1 UNA BREVE NOTA STORICA.
È noto che la storia della vita religiosa è ricca e complessa. Si può studiare da molteplici punti di vista: da quello carismatico a quello istituzionale e generazionale.
Il susseguirsi delle varie forme di vita religiosa ‘laicale’ pertanto va collocato all’interno di questa molteplice evoluzione, sotto pena di farne una lettura non oggettiva e, a volte, deformata.
Ci limitiamo quindi a premettere al tema vero e proprio di questo capitolo alcune linee, rimandando eventualmente ai non molti lavori specialistici esistenti, con annessa bibliografia.[1]
1.1.1 Nel monachesimo.
Le origini del monachesimo, specialmente in Oriente, costituiscono un fenomeno estremamente complesso. Si può comunque affermare che in generale i primi monaci erano semplici ‘laici’ ed il sacerdozio era tra loro un’eccezione.[2]
«Nei primi secoli del medioevo il monachesimo si sviluppa in Occidente e l’evoluzione della società cristiana contribuisce ad avvicinare i monaci allo stato clericale, mentre, sino a quell’epoca, essi erano stati più affini ai laici. (…) Il numero dei monaci-preti aumenta [pag. 19] nelle comunità, ma è difficile proporre statistiche precise: si parla del 20% di sacerdoti e diaconi alla fine del sec. VIII, del 60% nel IX, del 75% nel X».[3]
Nel sec. XII, specialmente con i Certosini e i Cistercensi, i «conversi» laici assumono la loro fisionomia caratteristica ed hanno un grande sviluppo. «Differenti sono le opinioni degli esperti circa i motivi dell’istituzione dei fratelli conversi. (…) Il primo canone conciliare che parla di essi è del Concilio ecumenico Lateranense II (1139): vi sono citati tra i soggetti inabili a contrarre matrimonio valido. (…) La Chiesa riconosceva perciò ai conversi uno stato religioso autentico come quello del monaco».[4]
1.1.2 Negli Ordini Mendicanti
I Domenicani e i Francescani hanno al loro inizio una diversa configurazione di vita e di missione; diversa dunque è anche l’impostazione della figura del religioso laico.
L’Ordine dei «Frati Predicatori» (Domenicani) è clericale fin dalle origini, ma san Domenico vi aggrega i «frati conversi» affidando loro le responsabilità materiali dei conventi. «In origine, sono i compagni dei confratelli sacerdoti e le differenze tra gli uni e gli altri sono da ricercarsi a livello di mansioni e non di stato religioso».[5]
La maggior parte dei primi compagni di San Francesco invece erano laici. I testi legislativi francescani non parlano quindi di «frate converso» ma di frate «laico». Tuttavia anche tra i Frati Minori presto si verifica un processo accelerato di clericalizzazione. Un fenomeno analogo si ebbe nell’Ordine Carmelitano.
«Con il Concilio di Trento (sess. XXII, De reformatione, e. 4) tutti i superiorati, nelle famiglie religiose clericali, furono riservati ai sacerdoti, ma le famiglie francescane protestarono per questa decisione; tuttavia, dovettero in seguito adeguarsi».[6] [pag. 20]
1.1.3 Negli Ordini e Congregazioni religiose moderne.
Nel sec. XVI sorgono i nuovi Ordini: i Teatini, i Barnabiti, i Somaschi, i Gesuiti ed altri ancora, composti in prevalenza da ‘chierici’. Tutti però hanno anche religiosi laici che si affiancano ai religiosi sacerdoti, con incarichi diversificati.
«Nella maggior parte delle Congregazioni clericali fondate nei sec. XVIII-XIX, accanto ai sacerdoti si trovano fratelli laici che ricevono nomi diversi (coadiutori, cooperatori, ausiliari, ecc. ). In genere questi religiosi assumono incarichi materiali; in alcuni Ordini, soprattutto missionari, talvolta sono stati impegnati in compiti apostolici laici (catechisti in particolare), ma spesso il desiderio è rimasto tale per la presenza di difficoltà».[7]
Potremmo concludere con questo rilievo: «La vicenda dei membri laici delle congregazioni religiose non è stata oggetto di molte ricerche storiche. Se una certa attenzione è stata data agli ordini di antica fondazione, poca nel complesso ne hanno meritata le congregazioni sorte nel secolo decimonono…».[8]
1.2 IL RELIGIOSO LAICO NELLA CONGREGAZIONE SALESIANA
1.2.1 Le origini. Il tempo di Don Bosco
I primi passi della Società Salesiana furono mossi a Torino, centro politico delle note misure soppressive di Ordini e Congregazioni, dopo il 1848, e vertice economico della prima trasformazione pre-industriale italiana. Lo stesso ambiente ecclesiale mostrava già da tempo chiari segni di un cattolicesimo in crisi, alla ricerca di una nuova identità. In particolare, nell’ambito delle tradizionali corporazioni religiose, alla grave erosione perpetrata dall’illuminismo si aggiungeva spesso il peso di non pochi tentativi di rinnovamento e di riforma caduti nel vuoto o rimasti lettera morta.[9]
Già ai primi dell’Ottocento, dopo la soppressione napoleonica e in occasione del faticoso ripristino degli Ordini e delle Congregazioni, non erano mancate voci di uomini sensibili e attenti che invocavano un’equilibrata inversione di rotta nella loro composizione e struttura. Sarebbero così potuti essere veramente «utili a Dio e alla società».
Le numerosissime Congregazioni, nate in questo periodo, non si sottrassero alle richieste avanzate dai tempi e, sia pure con forti differenze, oscillarono tra «il modello tradizionale e ripristinato» e il «modello nuovo», quello cioè di iniziale privata associazione cattolica laicale dove, appunto, la «laicità» era chiamata a svolgere un ruolo del tutto diverso da quello coperto dalla tradizionale figura dell’«oblato» o del «converso». Si presentava infatti come chi attestava una fondamentale realtà evangelica: la possibilità di santificarsi aperta a tutti, senza distinzioni di categorie e con piena parità di [p. 22] diritti. La teologia morale del tempo, stimolata anche dai non sempre sani e disinteressati principi affermati dalla Rivoluzione francese, fu spinta a ritrovare i nuclei di antiche verità da rivalutare tempestivamente. La letteratura e l’esperienza storica di S. Francesco di Sales costituirono per gli ecclesiastici in cura d’anime un sostanzioso punto di riferimento per tornare a parlare e a credere a pieno diritto alla «santità dei laici».
La formazione umana e religiosa di Don Bosco, sostenuta da virtù e attitudini naturali, fu segnata dai dati di questo orizzonte e si ritrovò tutta nella sua embrionale idea di Congregazione aperta — si potrebbe dire ‘naturalmente’ aperta — ai preti e ai laici, uniti insieme dalla comune spinta alla perfezione e alla carità cristiana.
«Non bastano allora a spiegare il sorgere della figura del ‘coadiutore’ le ragioni storiche o l’opportunismo contingente, l’acquiescenza alla tradizione o interessi e ragioni organizzative. Torna in primo piano un motivo altissimamente soprannaturale: la volontà di estendere, quanto più fosse possibile, una esperienza e una perfezione cristiana elevata e nobile al maggior numero di anime, di tutte le categorie».[10]
A. Le radici di un’esigenza: la nascita e le necessità dei laboratori e delle scuole di arti e mestieri nell’Oratorio.
Da una necessità comune, ma che a uomini intelligenti e coraggiosi finisce per suggerire le più straordinarie imprese, Don Bosco ebbe l’idea di fondare i suoi laboratori per artigiani.
Altri lo avevano già preceduto. A ridosso della Restaurazione è possibile imbattersi in scuole di arti e mestieri fondate da autentici pionieri. Giovannino Bosco compiva appena sei anni quando l’intraprendente canonico bresciano Lodovico Pavoni apriva l’Istituto S. Barnaba per giovani poveri con una serie iniziale di laboratori che, nel giro di dieci anni, contavano la tipografia e la calcografia, la legatoria e la cartoleria, l’argenteria, la falegnameria, i fabbri ferrai e la calzoleria.[11] Fra i ragazzi formati in questi laboratori il can. Pavoni [pag. 23] riusciva a trovare i suoi migliori collaboratori che poi si facevano sacerdoti o fratelli «coadiutori» per continuare a insegnare nelle officine stesse. Il Pavoni morì nel 1849 e non risultano, allo stato attuale delle ricerche, influssi diretti sul futuro organizzatore dei laboratori di Valdocco.[12]
a. La nascita dei laboratori.
Fu precisamente nel 1853, in un ristretto locale di Valdocco che Don Bosco prese a realizzare la sua iniziativa dei laboratori.
Preoccupato dei bisogni materiali, intellettuali e morali di un discreto numero di ragazzi e di giovani lavoratori, Don Bosco si era già adoperato per trovar loro qualche occupazione presso botteghe artigiane di Torino, giungendo a concludere spesso speciali contratti di apprendistato. Si conservano nell’Archivio centrale salesiano le copie di quelli stipulati a favore dei giovani Giuseppe Bordone (1851), Giuseppe Odasso (1852), Felice Paoletti (1855).
Ma quel mandare ogni giorno i suoi giovani nelle botteghe e nelle officine si era rivelato incomodo e pieno di rischi: «Ben presto — scrive a tal proposito lo storico Danilo Veneruso — Giovanni Bosco si accorse che un tal genere di intervento non rispondeva affatto alle esigenze della psicologia giovanile, alle finalità dell’educazione cristiana e nemmeno alle esigenze produttive della società contemporanea. Nei confronti della realtà giovanile, un intervento di soccorso a breve ed anche a medio termine era in grado di affrontare e risolvere il bisogno urgente immediato, ma non il problema dell’avvenire. L’intervento sul giovane, dopo successive esperienze, gli sì configurò sempre più come una sintesi tra programmazione educativa, chiara consapevolezza dei fini da raggiungere da una parte, e dall’altra, risposta attiva e consapevole del soggetto educativo, il quale era così in grado, attraverso un complesso tirocinio, come [pag. 24] persona capace e libera, di autogovernarsi e di dare un contributo alla crescita personale e sociale».[13]
È lo stesso Don Bosco che a varie riprese ha motivato le ragioni che lo indussero ad affiancare alle sue scuole domenicali e serali, iniziate nel 1845, e alla «Società di mutuo soccorso», fondata nel 1850, i laboratori interni: «Non avendosi ancora i laboratori nell’istituto — egli scrive — i nostri allievi andavano a lavorare e a scuola a Torino, con grande scapito della moralità, perciocché i compagni che incontravano, i discorsi che udivano e quello che vedevano, facevano tornare frustraneo quanto loro si faceva e si diceva nell’Oratorio».[14]
Si cominciò a provvedere ai calzolai e ai sarti. Don Bosco si affrettò a scrivere un appropriato «Regolamento dei laboratori» per i rispettivi maestri d’arte.[15] Essi avrebbero dovuto «istruire gli apprendisti e far sì che non mancasse lavoro». L’anno seguente si aggiunse il laboratorio di legatoria che, nel giro di un anno, era già in grado di ricevere commissioni di lavoro.[16] Alla fine del 1856 si inaugurò il laboratorio per falegnami. Per i laboratori di tipografia e dei fabbri ferrai, pur essendo nei desideri e nei progetti di Don Bosco fin dagli inizi, dati il costo e la complessità delle macchine e degli attrezzi e l’esigenza di locali adeguati, si dovranno attendere gli anni Sessanta.[17] Don Lemoyne accenna pure a locali destinati a tintori e cappellai.[18]
Un quadro completo dei laboratori esistenti nell’Oratorio lo si può dedurre da un «Riassunto della Pia Società di San Francesco di Sales» del 23 febbraio 1874, redatto per la S. Congregazione dei Vescovi [pag. 25] e Regolari in vista dell’approvazione delle Costituzioni: «Gli artigiani — vi è scritto — in vari laboratorii dello Stabilimento esercitano il mestiere di calzolaio, sarto, ferraio, falegname, ebanista, pristinaio, libraio, legatore, compositore, tipografo, cappellaio, musica, disegno, fonditore di caratteri, stereotipista, calcografo e litografo».[19]
b. L’esperienza lavorativa di Giovanni Bosco.
L’attitudine e la sensibilità per un così vasto raggio «artigianale» non furono di certo improvvisate. L’esperienza giovanile e personale di Don Bosco vi giocarono un ruolo importante.
Di origine e di mentalità contadina, aveva saputo operare una forte integrazione fra l’originario vissuto, tipico del mondo agricolo, e l’esperienza artigiana che le necessità e le situazioni gli presentavano. A 15 anni, frequentando le scuole pubbliche a Castelnuovo, ebbe modo di passare attraverso un apprendistato di musica e di cucito presso «l’onest’uomo» Roberto Giovanni che lo teneva a pensione: «Mi diedi con tutto il cuore all’arte musicale — scriverà nelle ‘Memorie’ —… In brevissimo tempo divenni capace di fare i bottoni, gli orli, le cuciture semplici e doppie. Appresi pure a tagliare le mutande, i corpetti, i calzoni, i farsetti; e mi pareva di essere divenuto un valente capo sarto».[20]
A Chieri, negli anni 1833-34, per mantenersi agli studi si adattò a lavorare come garzone di caffè e in poco tempo vi si immedesimò talmente da far suoi i segreti del suo datore di lavoro: «Alla metà di quell’anno io ero in grado di preparare caffé, cioccolatte; conoscere le regole e le proporzioni per fare ogni genere di confetti, di liquori, di gelati e di rinfreschi».[21]
Gli impegni scolastici gli consigliarono piuttosto lavori domestici e non eccessivamente pesanti, ma appena soppraggiungevano le vacanze, nonostante la talare da seminarista, si dedicava ad attività più virili ed impegnative: «Faceva fusi, pallottole al torno, cuciva abiti; tagliava, cuciva scarpe; lavorava nel ferro, nel legno. Ancora [pag. 26] presentemente avvi. alla mia casa di Murialdo uno scrittoio, una tavola da pranzo con alcune sedie che ricordano i capi d’opera di quelle mie vacanze. Mi occupava pure a segare l’erba dei prati, a mietere il frumento nel campo, a spampinare, a smoccolare, a vendemmiare, a vineggiare, a spillare il vino e simili».[22]
A ragione il suo terzo successore, Don Filippo Rinaldi, scriverà: «La Provvidenza ha disposto che Don Bosco esercitasse un pò quasi tutti i mestieri: egli è stato agricoltore, sarto, ciabattino, fabbro, falegname, tipografo perché i suoi figliuoli coadiutori potessero dire con un santo orgoglio: Don Bosco ha esercitato anche il mio mestiere! Perciò il nostro venerabile Fondatore s’è reso modello perfetto dei sacerdoti, ma anche dei coadiutori».[23]
L’esperienza del lavoro manuale rese Don Bosco capace di comprenderne il valore ai tini di una corretta e completa formazio-ne umana. Nonostante i suoi studi seminaristici, non svalutò mai le attività profane quasi bisognasse guardarsene per non compromettere dignità e spirito ecclesiastico.[24]
Don Bosco, pur condividendo questa preoccupazione (ai salesiani coadiutori infatti ripeterà spesso: Voi potete fare ciò che non è concesso ai sacerdoti), aveva del lavoro un’alta stima per la sua valenza sociale ed educativa. Il lavoro sviluppava nei giovani il senso della solidarietà verso i compagni, specialmente nei momenti del pericolo morale e del bisogno materiale, e li abituava al confronto e alla responsabilità.
c. Laboratori e collaboratori.
Con l’istituzione dei laboratori interni, il nodo più delicato e più urgente da sciogliere era quello del personale istruttore ed educatore. Il problema fu risolto «attraverso laboriose esperienze. Don Bosco stesso ne ricapitolò le fasi nel 1885. Gliene porse il destro l’oggetto di una discussione apertasi nel Capitolo Superiore [il 14 dicembre 1885] [pag. 27]; rifece allora la storia dei suoi artigiani nell’Oratorio (…) ed enumerò i vari esperimenti tentati prima di arrivare a una soddisfacente sistemazione. (…) Finché non fu possibile fare a meno di capi venuti da fuori, Don Bosco si ridusse a esonerarli da ogni ingerenza disciplinare ed economica, affidando queste mansioni a Coadiutori salesiani, i primi dei quali furono Giuseppe Rossi, Giuseppe Buzzetti e il Cav. Oreglia di S. Stefano. Ma come procacciarsi maestri d’arte suoi? (Tra gli artigiani dell’Oratorio) non mancarono mai di quelli che si sentivano maggiormente attratti verso di lui e che egli veniva lavorando con cura speciale nell’intento di farli suoi. Questi tali finivano facilmente con decidersi a stare per sempre con Don Bosco, della quale espressione noi conosciamo già il valore che le si dava nell’Oratorio. (…) Essi rientravano maestri in quei laboratori dov’erano stati allievi».[25]
Quindi all’inizio era stato lo stesso Don Bosco a farsi «assistente» e primo «maestro» di arti e mestieri. Poi, realisticamente, ricorse ad esperti in materia, chiamando all’Oratorio veri e propri maestri d’arte salariati. La scelta di questi maestri si rivelò ben presto molto esigente e selettiva: «Per averli capaci di ammaestrare allievi bisogna che siano di moralità, attitudine e scienza non ordinaria e perciò ben pagati»[26]
Era difficile trovare nelle persone l’abbinamento che si desiderava fra perizia professionale e attitudini morali ed educative. Don Bosco intravide la soluzione nella scelta di collaboratori laici, preferibilmente residenti in forma stabile all’Oratorio e provenienti dal medesimo.
B. Coadiutore: dal collaboratore laico al religioso laico.
Con una visione che non creava barriere di sorta nel campo della perfezione cristiana e dell’apostolato, Don Bosco ebbe di fatto, fin dagli inizi della sua opera, la concreta e fattiva collaborazione dei laici. Ciò gli permise di costatare direttamente il valore e il peso educativo della loro presenza in mezzo ai giovani. [pag. 28]
Certamente, dalle testimonianze e dai documenti di cui disponiamo, non ci è possibile stabilire se il Salesiano coadiutore, come lo si configura oggi, sia emerso dall’esperienza e dalla genialità di Don Bosco in concomitanza con la nascita stessa della Congregazione. Si propende piuttosto per una normale e progressiva maturazione di questa forma vocazionale, gestita inizialmente da Don Bosco secondo modalità riscontrabili nel suo tempo e nel suo ambiente e successivamente modificata e coordinata alle esigenze istituzionali.
Il termine o la qualifica di «coadiutore», rintracciabile per la prima volta nei registri d’«anagrafe dei giovani» di Valdocco nel dicembre del 1854 accanto al nome del trentenne Alessio Peano, non ha alcun riferimento a significati di natura religiosa.[27] Esprimeva un tratto di delicatezza e di rispetto da parte di Don Bosco verso quelli che altri chiamavano semplicemente «servi». Manifestava sopra tutto l’indole propria della presenza di questi laici in mezzo ai giovani: non erano semplici dipendenti, ma parte in causa, collaboratori. L’appellativo quindi pur non esprimendo la sostanza di quanto noi oggi intendiamo, racchiude la matrice di uno sviluppo.
Don Giuseppe Vespignani, in un suo scritto ancora inedito: «Storia del coadiutore salesiano», redatto su un’agenda del 1930, conservata presso l’Archivio salesiano centrale, dice esplicitamente che «il nome di Coadiutore fu il primo che Don Bosco diede a tutti i suoi compagni ed amici che compresero l’importanza dell’opera degli Oratori, cioè di istruire, assistere e guidare la povera gioventù abbandonata nei doveri della vita cristiana».
Per lunghi anni la qualifica «coadiutore» continuerà ad indicare genericamente collaboratori laici residenti a Valdocco, avessero o no professato nella Società di San Francesco di Sales. Fino agli anni ’80 si dà quella che P. Stella chiama «la condizione fluida delle origini: coadiutori con voti e senza voti».[28] «Le lacune e le reticenze delle costituzioni (stesse) del 1868 forse tendevano a rispecchiare una situazione volutamente fluida, per cui tra l’altro nella vita quotidiana non esisteva una formale distinzione tra chierici di Don Bosco e chierici diocesani, tra coadiutori con voti e coadiutori che erano [pag. 29] semplici ospiti o lavoratori salariati».[29] Bisognerà arrivare al CG3 del 1883 per stabilirne la distinzione[30] e riservare ufficialmente l’appellativo ai Salesiani laici.
Le persone che nel primo ventennio di vita dell’Oratorio sono denominate «coadiutori» si aggirano intorno alla ventina, con un’età che oscilla dai 14 ai 69 anni e con una media di oltre 34 a. Parecchi di loro, pur pagando una retta minima, riscuotono regolare retribuzione come veri e propri famigli o come lavoranti nei laboratori di arti e mestieri intestati a Don Bosco. La loro presenza a Valdocco è in genere molto discontinua e normalmente di breve durata. Può trattarsi, verosimilmente, di una parte di quella notevole fascia di giovani che dalla provincia venivano nel capoluogo attirati dagli opifici che a Torino cominciavano ad assorbire manodopera. Presso Don Bosco essi trovavano il primo punto di appoggio fino ad assunzione avvenuta, senza obblighi o vincoli di natura religiosa che non fossero quelli del buon cristiano.
Nella geografia dei vari gruppi o categorie esistenti (sacerdoti, chierici salesiani, seminaristi, studenti e artigiani), i «coadiutori» risultarono inseriti, in forma familiare e indistinta, nel tessuto connettivo di Valdocco, dominato dalla presenza di Don Bosco, confessore e padre spirituale, e impregnato delle sue stesse caratteristiche temperamentali e dei suoi ideali. Tutto in clima di famiglia e di attiva partecipazione, nonostante le differenze di stato.
Nel settore degli artigiani il numero e la qualità dei laici divennero sempre più significativi e richiesti. Proprio da questo gruppo di collaboratori laici, ormai indispensabile e ben assimilato nella sostanza e nello stile al modello voluto da Don Bosco, cominciò a prender corpo la realtà del «Salesiano coadiutore». Il passaggio era solo interiore e di sostanza, senza novità alcuna di abito o di occupazione. I lavoranti laici, infatti, che preferivano stare con Don Bosco [pag. 30] e stabilirsi a Valdocco erano quasi tutti di provenienza rurale e urbana popolare, aree notoriamente «attaccate alla religione», nelle quali era vivo il senso della Provvidenza, l’osservanza religiosa, il pieno rispetto per il clero, una grande devozione a Maria e la frequenza ai sacramenti.
L’elemento più nuovo e notevole che in quel tempo di una certa mobilità sociale costituiva un’incommensurabile garanzia assicurativa per questi primi collaboratori, era la certezza di poter rimanere con don Bosco che assicurava «lavoro, pane e paradiso».
Don G. Vespignani, nell’inedito citato, conferma questo dato: «Il coadiutore di Don Bosco generalmente, al farsi salesiano, non pensava proprio ad accettare una regola ed a fare dei voti: egli intendeva di stare con Don Bosco per aiutarlo a fare ciò che egli volesse: in questo riponeva la sua felicità. Il resto della regolarità, della perfezione religiosa, della professione dei voti, verrebbe in seguito, secondo che lo indicasse Don Bosco».
C. I primi «Salesiani Coadiutori».
La figura caratteristica del «Salesiano Coadiutore» venne pertanto definendosi nel primo ventennio di vita della Società di S. Francesco di Sales. In questa definizione «non (è) facile stabilire se i motivi siano stati tutti contemporaneamente presenti fin dall’inizio in Don Bosco oppure siano intervenuti gradualmente in tempi successivi, parallelamente al progressivo maturare della sua opera (…) Il particolare temperamento di Don Bosco, le modalità e le cautele con cui egli ha voluto presentare la nuova Congregazione sia ai giovani candidati e agli ipotetici membri sia al pubblico e alle Autorità, il caratteristico metodo della gradualità da lui adottato nell’attuare le sue imprese, la precedenza da lui generalmente data ai fatti ed alle realizzazioni rispetto alle teorie e alle codificazioni e, quindi, la conseguente penuria di documenti in proposito nei primi anni, non facilitano la risposta».[31]
a. Alcune date e, con esse, alcune figure fondamentali del primo [pag. 31] periodo possono servire di orientamento generale, per vedere come a partire dal 1860 cominciano poco a poco a differenziarsi i «Salesiani coadiutori» veri e propri dagli altri cosiddetti «coadiutori» laici in genere.
Nell’assemblea del 18 dicembre 1859, formale atto di nascita della Società di S. Francesco di Sales, mancano i salesiani coadiutori.[32] Ma già il 2 febbraio 1860 avvenne l’accettazione del primo socio laico. Come si legge nel verbale del Capitolo della Società, in quel giorno il «giovane Rossi Giuseppe di Matteo, da Mezzanabigli (…) venne ammesso alla pratica delle regole di detta Società»,[33] frase che, nell’intenzione di Don Bosco, equivaleva alla prova del noviziato. Giuseppe Rossi aveva 24 anni; emise i voti triennali quattro anni dopo, il 19 settembre 1864; fece i voti perpetui nel 1868 e morì salesiano il 29 ottobre 1908. Sul registro dell’anagrafe di Valdocco è segnato con la qualifica professionale di «provveditore».
Con il giovane Giuseppe Rossi il termine «coadiutore», già in uso, come abbiam visto, nelle scritture interne dei registri di Valdocco, passò a integrare la terminologia corrente del vocabolario salesiano. Infatti, appena tre mesi dopo, nella lettera dell’11 giugno 1860, indirizzata a mons. Fransoni, arcivescovo esule di Torino e in cui si domandava l’approvazione dell’annesso esemplare delle Regole, compare il titolo di «coadiutore»[34]segnato accanto al nome di G. Rossi e di Giuseppe Gaia, insieme a quello di «sacerdote» e «chierico» degli altri firmatari.
A queste prime due adesioni ben presto se ne aggiunsero altre. I loro nomi e le loro imprese bastano da soli a caratterizzare bene l’intento di Don Bosco e il significato della sua nascente istituzione: il cav. Federico Oreglia di S. Stefano, «factotum amministrativo», e Gaia, cuoco, emisero per primi i voti il 14 maggio 1862, data dei primi voti religiosi ufficiali della Società Salesiana. Il già citato Rossi, guardarobiere, capolaboratorio e provveditore generale, professerà due anni dopo; Andrea Pelazza, ammesso nel 1863 e poi per quasi quarant’anni leggendario incaricato della tipografia e cartiera salesiana, [pag. 32] morì salesiano il 23 settembre 1905; e poi Pietro Enria, anch’egli professo nel 1878 e già da adolescente presso Don Bosco, di cui fu poi insostituibile infermiere; Giuseppe Buzzetti professo nel 1877, mano destra e fiduciario di tutte le prime realizzazioni d’avanguardia; Marcello Rossi, Giuseppe Dogliani, Domenico Palestrino, legati in modo personalissimo a tre istituzioni nodali di Valdocco: la portineria, la musica e la sacrestia del Santuario di M. Ausiliatrice; Gioia, Scavini, Belmonte e Molinari, che fecero parte della prima spedizione missionaria in Argentina. Ormai non c’era settore o impresa di rilievo nel crescente sviluppo della Congregazione che non comportasse insieme al Salesiano presbitero o chierico, la presenza del Salesiano laico.
«Tra il 1860 e il ’70 i coadiutori salesiani vivevano un po’ mimetizzati tra gli artigiani, i capi d’arte e i subalterni nella famiglia dell’Oratorio; così come i preti e i chierici salesiani non facevano vita distinta da quella dei chierici diocesani ospitati a Valdocco.
Sotto certi aspetti questa situazione era il riflesso della circospezione che caratterizzava in quei tempi molte imprese di Don Bosco. Dopo le prime spedizioni missionarie egli dirà ai salesiani quanto era stato restìo precedentemente a divulgare l’appellativo, appunto, di «Salesiani». Se da una parte poteva temere nei suoi collaboratori reazioni di ripulsa, come quelle che ebbe Giovanni Cagliero quando per la prima volta nel 1854-55 si sentì invitato ad ascriversi alla congregazione salesiana, dall’altra don Bosco viveva nel timore di vessazioni fiscali. Solo dopo il 1871, dopo la legge delle Guarentigie, in clima di garantito separatismo e rispetto, si assiste al moltiplicarsi di iniziative di don Bosco verso un inserimento pubblico del-la congregazione salesiana nella società italiana e nel mondo».[35]
E, meglio ancora, bisognerà attendere la prima spedizione missionaria del 1875 per assistere a un notevole cambiamento: Don Bosco, nel presentare all’esterno la sua Pia Società, alla circospezione e al riserbo sostituì la notorietà e la propaganda a vasto raggio.[36] Le [pag. 33] lettere che giungevano dall’Argentina nei primi mesi del 1876 crearono un forte clima di entusiasmo e confermarono Don Bosco sull’opportunità della formula «preti chierici coadiutori», assimilati, senza gradi e distinzioni, nella comune identità di «Salesiani». Il Vicario generale di Buenos Aires espresse bene il suo giudizio sulla situazione, nuova nella storia degli Ordini religiosi, riferendolo al gruppo dei primi salesiani insediati in S. Nicolas: «Fagnano è infaticabile, Tomatis intrepido, Cassinis costante, Allavena robusto, Moli-nari indefesso, Gioia invincibile, Scavini incommovibile nel lavoro scientifico, manuale e religioso… Il collegio va perfettamente. I Padri salesiani si portano benissimo e sono stimatissimi in città, e il loro nome suona già in tutta l’America del Sud».[37]
La realtà effettiva sperimentata a Valdocco negli anni 1858-1888, il peso degli avvenimenti di natura economica e sociale (si pensi alla provenienza dei giovani dalla campagna o dalle zone depresse, con l’incipiente trasformazione industriale la progressiva consapevolezza e solidità del progetto salesiano nel mondo fissano gradualmente i tratti più significativi della fisionomia del Salesiano coadiutore e del suo posto in Congregazione. I dati statistici rispecchiano questa situazione: nel 1870 i Salesiani coadiutori, professi e ascritti, erano 23; i preti erano 26.
b. Provenienza e occupazioni.
Sembra opportuno rendersi anche conto degli ambienti da cui provenivano i Salesiani laici e della varietà di compiti loro affidati.
Le primissime vocazioni di Coadiutori giunsero dall’esterno. Il caso del cav. Federico Oreglia di S. Stefano lo dimostra. Tuttavia il vivaio naturale e tipico rimase Valdocco e il mondo vario dei laboratori per artigiani e degli altri suoi servizi. Lo spoglio sistematico dei dati personali della prima generazione di Salesiani coadiutori conferma [pag. 34] questo assunto e, salve le caratteristiche vicende di alcuni fra loro, ripropone un iter abbastanza comune: incontro o conoscenza fortuita di Don Bosco fuori Valdocco, trasferimento a Torino senza alcuna intenzione di stabilirvisi, primi incarichi a ritmo crescente nelle più diverse mansioni secondo i bisogni e le attitudini man mano valorizzate, vita in comunità con carattere di permanenza, domanda e professione religiosa.
Si nota una traiettoria graduale di chiaro segno educativo-religioso, che trasformava questi collaboratori avventizi, amici o ammiratori (mai subalterni!) di Don Bosco in veri e propri corresponsabili a tempo pieno di vari settori, da quello logistico a quello amministrativo. Agli inizi del 1870 infatti troviamo già i nomi di Giuseppe Rossi e Andrea Pelazza come legali rappresentanti di fronte allo Stato di vari beni immobili; Giuseppe Rossi sarà chiamato al CG4 come consulente dei Salesiani coadiutori e incaricato delle scuole di arti e mestieri; il capo sarto Pietro Cenci, grazie alla sua pubblicazione «Metodo di taglio», che gli valse il titolo di ‘professore’ e di ‘cavaliere della Corona’, ebbe spesso l’incarico di rappresentare legalmente il settore sartoria presso varie esposizioni e concorsi statali; Giuseppe Gambino, dopo un lungo e brillante periodo di gestione aziendale delle «Letture Cattoliche», della «Biblioteca della gioventù italiana» e del «Bollettino Salesiano», divenne nel 1891 «gerente responsabile» di tutta la Libreria editrice salesiana.
Naturalmente non tutti erano sempre addetti ad un settore specializzato. Alcuni facevano un po’ di tutto, come Pietro Enria o Pietro Nasi. Essi passavano tranquillamente dalla sala di musica al teatro, alla cucina, alla barbieria, alla ricerca di lavoro per i laboratori e all’infermeria così da risultare, come amava ripeter loro Don Bosco, «non solo utili ma necessari». Altri magari ricoprivano due incarichi, quello di portiere e quello di cuoco, importanti perché, insieme al direttore, garantivano, si diceva, lo stesso «buon andamento di una casa salesiana». Marcello Rossi, per esempio, fu portinaio per quarantotto anni, mentre Giuseppe Falco, Francesco Mascheroni e Giuseppe Ruffatto furono cuochi di rinomata dedizione.
Tanta abilità e tanta sollecitudine lavorativa non basterebbero però da sole a qualificare lo specifico di questi uomini, simili alla fin fine, nella frugalità e nella tenacia, a tutta una schiera di figure piemontesi contemporanee, pionieri di imprese divenute poi grandi. [pag. 35]
La chiave di comprensione delle occupazioni, umili o altamente professionali, svolte dai Salesiani coadiutori ha il suo specifico nella corresponsabilità apostolica ed educativa, nell’aiuto diretto o indiretto al sacerdote per la salvezza delle anime. Se non si considerasse permanentemente questa prospettiva, si rischierebbe di svuotarle di anima e di finalità e di vanificare affermazioni basilari e convincimenti di Don Bosco che vedeva nel Coadiutore un apostolo e un educatore, anzi «un vero operaio evangelico»: «Questa è l’idea del coadiutore salesiano — spiegherà egli stesso nel discorso programmatico del 1883 — Io ho tanto bisogno di avere molti che mi venga-no ad aiutare in questo modo».[38]
D. Il pensiero di Don Bosco, nell’ultimo decennio di vita, fonte e termine di confronto.
Come si è accennato, nei primi anni di vita della Congregazione esisteva già la realtà del Salesiano coadiutore vitalmente inserito, con mansioni e attribuzioni inedite e sicuramente diverse da quelle della parallela figura del tradizionale ‘converso’. Tuttavia sono pochi e non espliciti i riferimenti dei testi formali di cui disponiamo. Abbiamo ricordato alcuni fattori che spiegano tanto riserbo da parte di Don Bosco. Si deve inoltre tener conto del carattere ancora «intuitivo» della figura del Salesiano coadiutore, come germe che contiene in sé gli sviluppi successivi, e della più accentuata spiegabile preoccupazione per le vocazioni sacerdotali.[39] Inoltre l’indiscutibile prudenza di Don Bosco[40] lo porta a prendere un certo tempo [pag. 36] per convincersi della opportunità di reclutare giovani artigiani, elementi cioè di una categoria abbastanza staccata e diversa da quella degli studenti, ai quali era tradizionalmente aperto, se non in forma esclusiva, il discorso vocazionale.
D’altro canto era un tratto tipico del nostro Padre quella ponderatezza che si esprime, ad esempio, nelle parole pronunciate dopo aver letto la lettera del Rettore del Seminario di Montpellier, ansioso di conoscere i segreti del suo progetto pastorale «Sono sempre andato avanti come il Signore mi ispirava e le circostanze esigevano».[41] Certamente in tutto questo Don Bosco non si lasciò prendere dalla fretta. Per molto tempo evitò o di fatto non parlò mai pubblicamente della faccenda agli alunni dell’Oratorio. Si limitava, secondo una strategia ormai familiare, a proporre ad alcuni giovani di aiutarlo e, avutone il consenso, li introduceva gradualmente al tirocinio di una fiduciosa collaborazione e di una dedizione piena fino “alla professione religiosa.
a. Il pensiero di Don Bosco.
Solo nel 1876, per i motivi già accennati, ha inizio un tempo che porta novità nel modo di presentare e motivare la vocazione del Salesiano coadiutore.
«Quando il 31 marzo 1876, per la prima volta, Don Bosco fece ai suoi giovani artigiani di Valdocco l’esplicita ‘rivelazione’ della vocazione del coadiutore salesiano, ne avevano preparato la necessaria comprensione soprattutto due fatti molto eloquenti 1) la realtà effettiva: ‘nonostante il lungo riserbo osservato da Don Bosco nel parlare in pubblico di Coadiutori, il Catalogo di quell’anno (1876) ne registrava già 28 professi perpetui, 22 triennali, 28 ascritti, 25 aspiranti’. (E. Ceria, Annali 1, 707); 2) la partenza dei salesiani per l’America Meridionale, che recò all’Oratorio fermenti di entusiasmo anche per i laici collaboratori del Sacerdote nell’opera evangelizzatrice e civilizzatrice».[42] [pag. 37]
La preparazione e la stessa partenza della prima spedizione per l’Argentina posero i presupposti ottimali per questo cambiamento e rappresentarono il meglio di quelle ‘circostanze’ cui aveva accennato Don Bosco a proposito della lettera da Montpellier. Infatti le notizie ricevute dai missionari giunti a destinazione, e da quanti li vedevano lavorare, spianavano il campo da ogni difficoltà e davano l’ineguagliabile opportunità di far capire ai giovani chi erano quei ‘coadiutori’, partiti mesi prima per l’Argentina, e perché potevano chiamarsi essi pure ‘missionari salesiani’, proprio come gli altri che, in talare, avevano lasciato Valdocco per terre così lontane.
La sera del 19 marzo 1876, nella conferenza a cui erano presenti anche gli artigiani più grandicelli, nel corso della festa in onore di S. Giuseppe, da loro celebratissimo, Don Bosco precisava «E notate bene che per operai qui non s’intendono solo, come alcuno può credere, i Sacerdoti, Predicatori e Confessori… Operai sono tutti quelli che in qualche modo concorrono alla salvezza delle anime; come operai nel campo non sono soltanto quelli che raccolgono il grano, ma tutti gli altri. Guardate in un campo quanta varietà di operai… Così nella Chiesa c’è bisogno d’ogni sorta di operai, ma proprio di tutti i generi… Oh, se si potessero avere tanti sacerdoti da mandare in ogni regione della terra, in ogni città, paese, villaggio, campagna e convertire il mondo! Ma tanti sacerdoti è impossibile averli; bisogna dunque che vi siano anche altri. Poi i sacerdoti come potrebbero essere liberi nel ministero, se non avessero chi loro cuoce il pane e le vivande? se avessero a farsi da sé le scarpe e gli abiti? Il sacerdote ha necessità di essere coadiuvato; ed io credo di non essere in errore se asserisco che quanti siete qui, e preti e studenti e artigiani e coadiutori, potete essere veri operai evangelici e fare del bene nella vigna del Signore (…). Adesso qualcuno domanderà: — Ma, signor Don Bosco, a che cosa vuol ella alludere con questo? Che cosa intende ella di dirci? Per quale motivo ci manifestò queste cose stasera? Oh, miei cari! Quel grido «Operarii autem pauci» non si faceva solo sentire nei tempi antichi ma a noi in questi tempi nostri si fa sentire imperioso più che mai. Alla Congregazione salesiana cresce di giorno in giorno così smisuratamente la messe che, quasi direi, non si sa più da quale parte incominciare… Dalla Repubblica Argentina poi abbiamo notizie strazianti da D. Cagliero… Oh si che desidererei vedervi tutti slanciati a lavorare come tanti Apostoli! A questo [pag. 38] tendono tutti i miei pensieri, tutte le mie cure, tutte le mie fatiche».[43]
Le affermazioni di Don Bosco, pur cadendo in terreno già predisposto a capire questo linguaggio, le sue sfumature e il non detto, costituiscono la preparazione immediata a ciò che può dirsi «la prima epifania» di quanto era stato lungamente sperimentato e vissuto nell’intimità del nucleo religioso dell’Oratorio.
Solo una decina di giorni dopo, infatti, il 31 dello stesso mese, Don Bosco sembra quasi riprendere il filo del discorso per precisarne i tratti essenziali. Don Ceria, riportando il fatto, non nasconde la sorpresa: «Non mai per l’addietro — egli scrive — il Beato Fondatore si era spiegato così chiaramente in pubblico su questo argomento. È probabile che nella conferenza del giorno di S. Giuseppe egli mirasse ad aprirvisi la strada; certo è, in ogni modo, che l’impressione prodotta allora dalle sue parole gli aveva preparato ottimamente il terreno».[45] «Ad essa — precisa Don Bosco mettendo subito a fuoco il fine ultimo — può prendere parte chiunque abbia voglia di salvarsi l’anima».[46]
Questa scelta passa attraverso due caratteristiche individuanti e specifiche dell’opera salesiana: l’apostolato, quello giovanile specialmente, [pag. 39] come si può ben capire da tutto il contesto, e l’assoluta parità vissuta in un ambiente di convivenza fraterna. Al riguardo ciò che dice Don Bosco è volutamente perentorio e chiaro: «Notate eziandio che tra i soci della Congregazione non vi è distinzione alcuna: sono trattati tutti allo stesso modo, siano artigiani, siano chierici, siano preti: noi ci consideriamo tutti come fratelli e la minestra che mangio io l’hanno anche gli altri e la stessa pietanza, lo stesso vino che serve per Don Bosco, per Don Lazzero per Don Chiala, vostro Direttore, si dà a chiunque faccia parte della Congregazione».[47] Naturalmente non poteva mancare un significativo riferimento a quelle ‘circostanze’ di cui abbiamo parlato «Eziandio se vi fosse qualcuno che desiderasse di andare in America, entrando nella Congregazione avrebbe la comodità di andarvi… Avete visto che l’anno scorso erano qui vari vostri compagni: ora sono là Missionari e fanno molto del bene. Essi, finché furono qui, in nulla erano da voi distinti: erano come voi. Ora che sono là, vivono contenti in modo straordinario. Tutti voi conoscevate benissimo Gioia che faceva il calzolaio: ebbene in questi giorni si ricevette notizia che esso è divenuto un gran faccendiere: fa il cuoco, il calzolaio, il catechista. Conoscevate anche Scavini, falegname, che una volta era qui ragazzetto, ora è capo laboratorio con circa venti garzoni sotto il suo comando e sappiamo che nel poco tempo che è là ha già fatto moltissimo. E Belmonte? Sembrava non avesse niente di particolare in quanto a doti della persona, quando era tra noi, ed ora conosciamo di lui tante belle cose: fa il sagrestano, il musicante, il catechista e possiamo dire che è lui il maggiordomo della casa di Buenos Aires. E se volete, aggiungete eziandio Molinari, benché coltivi la musica. Tutti costoro, l’anno scorso erano tra noi semplici artigiani ed ora sono là, campioni stimati ed onorati».[48]
Tolti gli ultimi dati, legati alle recentissime vicende «americane», conviene sempre ricordare che Don Bosco non aggiungeva nulla di nuovo e di diverso a quanto gli ascritti salesiani, e in particolare i Coadiutori, avevano già da anni imparato a sentire e a vivere. Infatti in un appunto di Don Cesare Chiala, che sunteggiava un [pag. 40] discorsetto tenuto dal Santo agli ascritti coadiutori già quattro anni prima, nel 1872, i concetti espressi anticipano sostanzialmente quelli appena riportati «Scopo della Società si è di salvare la nostra anima e poi anche di salvar quelle degli altri, specialmente dei giovani. .. In nessun luogo, come in una Congregazione, si verifica la verità della Comunione dei Santi, in cui tutto ciò che fa uno va anche a profitto dell’altro. E infatti chi predica, chi confessa, dopo un certo tempo, ha bisogno di mangiare, come farebbe se non ci fosse il cuoco; il dotto professore ha pur bisogno di vestirsi, di calzarsi, che farebbe se non ci fosse il sarto, il calzolaio? Gli è come nel corpo, la testa vai più della gamba, l’occhio più del piede, ma sì l’uno che l’altro son necessari al corpo: basta che una spina penetri nel piede, perché tosto occhi, mano testa si mettano in moto per sollevare il povero piede. Anche qui cade in acconcio il paragone della fabbrica degli orologi: tutti gli ordigni, fatti con giustezza e precisione, si combinano insieme e ne riesce un orologio perfettissimo».[49]
Identità di vedute quindi nell’essenziale, ma anche evidente sviluppo con graduale adattamento agli avvenimenti e alle concrete esigenze dei tempi. Seppure, di tanto in tanto, l’accenno esplicito alla dimensione educativa ed apostolica sembra lasciato in ombra. Ne fa fede la «Circolare per la ricerca di vocazioni di coadiutori»,[50] fatta scrivere e spedire da Don Bosco ai parroci nel gennaio del 1880. Oltre all’ormai acquisita possibilità di parlare liberamente e pubblicamente, anche fuori dell’Oratorio, della ‘Pia Società Salesiana fondata dal Sig. Don Bosco Giovanni’, si manifesta il desiderio di far sapere a raggio più vasto non solo dell’esistenza della componente laicale della nuova Congregazione, ma sopra tutto della sua necessità: «Il moltiplicarsi delle opere — commentava infatti il Ceria presentando questa lettera — induceva la necessità di reclutare un numero adeguato di coadiutori».[51] Ciò che invece risulta compresso è il ruolo affidato a questa componente, ridotto a semplice collaborazione materiale nella conduzione degli istituti, senza che si accennino eventuali impegni di natura apostolica ed educativa. Vengono infatti richiesti giovani «disposti ad occuparsi di qualunque lavoro; [pag.41] per es. nella campagna, nell’orto, in cucina, in panetteria, tener refettori, far la pulizia della casa; e se sono abbastanza istruiti saranno messi negli uffici in qualità di Segretari. Quando poi fossero addestrati in un’arte o mestiere di quei che esercitiamo nei nostri Istituti, potrebbero continuare la loro arte nei rispettivi Laboratori. L’età loro dovrebbe essere dai 20 compiuti ai 35 anni circa».
La lettera, contrariamente a quanto afferma il Ceria,[52] potrebbe prestarsi a interpretazioni riduttive, se non fosse correttamente collocata in un certo contesto e valutata nell’ottica di Don Bosco. A suo avviso, il Salesiano coadiutore poteva e doveva essere, come abbiamo costatato sopra, un «operaio evangelico» e quindi, ovviamente, la sua presenza e il suo servizio ai giovani non potevano esaurirsi in una pura e semplice funzione amministrativa. Era talmente implicita la dimensione apostolica ed educativa che neppure le autorevoli «Deliberazioni del Terzo e Quarto Capitolo Generale della Pia Società Salesiana, tenuti in Valsalice nel settembre 1883-86»,[53] sentono il bisogno di dedicarvi più spazio del necessario. Un inciso risulta nella IV deliberazione del «Regolamento per gli Oratori festivi»,[54] nel corso del CG3 del 1883: «Tutti i Soci Salesiani, così ecclesiastici come laici, si stimino fortunati di prestarvi l’opera loro, persuadendosi essere questo un apostolato di somma importanza». Sembrerebbe essere cosa di poco conto se non si esaminasse l’insieme della documentazione di tutto il Capitolo, che riserva ben due «Temi» al Salesiano coadiutore: il IV (Coltura dei Confratelli Coadiutori) e il V (Indirizzo da darsi alla parte operaia nelle Case Salesiane e mezzi per sviluppare la vocazione dei giovani artigiani), discussi nelle sessioni del 6 settembre e di cui possediamo una sintetica trascrizione verbale che conviene riportare.
«6 settembre Mattina. Alle ore 9.15 D. Rua apre la conferenza con le solite preghiere. Il Relatore D. Belmonte dà lettura agli studi fatti sul tema IV riguardante la coltura de confratelli coadiutori. Entra Don Bosco e si dà lettura al tema V che riguarda l’indirizzo [pag. 42] [da darsi alla parte operaia nelle Case Salesiane] ecc. come avente relazione con la coltura [dei Confratelli Coadiutori] ecc. Si fa una questione se convenga lasciare sì o no il nome di coad. ai soci secolari o cambiarlo con quello di Confratello. D. Bosco e molti opinano che non si debba mutare, solo si mostra la convenienza che non si dia il nome di Coadiutore ai famigli. In dipendenza di questa questione si accenna dal Confratello Barale a un pò di negligenza che si verifica fra gli antichi e i nuovi venuti. Don Bosco con molta aggiustatezza rilegge a questo proposito «Tutti i soci si riguarderanno come fratelli ecc.» (cap. 2, art. 1). Quindi Don Bonetti propone un canone così concepito: Tutti i soci tanto sacerdoti come laici si trattino… Don Bosco fa osservare che è conveniente conservare interamente i nomi conservati dalla Congregazione dei Vescovi e Regolari «Fratres Coadiutores».
«6 settembre Sera. … Entra in questione se sia necessario aprire un Noviziato apposito per gli ascritti artigiani. D. Bosco opina di migliorare la loro posizione separandoli dal resto degli Artigiani. Quasi tutti opinano di fondarlo separatamente. Resta sospesa que-sta speciale deliberazione. Poi si cercherà di stabilire qualcosa a S. Benigno».[55]
Com’è possibile notare, la preoccupazione dell’assemblea capitolare non verte tanto sull’attività apostolica del Salesiano coadiutore, quanto piuttosto su una migliore conoscenza della sua identità e sulla sua collocazione all’interno della Congregazione. Ne sono indizi la questione del nome, la necessità di una ben chiara distinzione dai famigli, l’opportunità di un noviziato separato «dal resto degli Artigiani» (cosa che fu ‘stranamente’ attuata, ma in riferimento ai chierici!).[56]
Si tratta in definitiva di problemi che sarebbero stati incomprensibili fino al 1874. Acquistano invece un senso e un peso se si tengono presenti gli avvenimenti e i cambiamenti che accompagnarono la fase di assestamento della Congregazione dopo il lungo iter dell’approvazione definitiva delle Costituzioni da parte della S. Sede. Diamo una rassegna dei fatti più significativi. [pag. 43]
Già nel 1875, con la missione in Argentina, si ebbe la prima espansione extra-europea con notevoli fenomeni di risonanza all’esterno e all’interno del tessuto connettivo originario della Congregazione. Prese sempre più consistenza e spessore di vita il primo embrione di Famiglia Salesiana con il ramo femminile delle Figlie di Maria Ausiliatrice e con il ramo laicale, l’associazione dei Cooperatori. Dal 1877 tutta la vita salesiana venne come scandita e contrassegnata, ogni tre anni, dagli orientamenti e dalle deliberazioni dei Capitoli generali presieduti solo fino al 1886 dallo stesso Don Bosco.
Nel frattempo, la forte crescita della Congregazione e la sopravvenuta clausura canonica per le Figlie di Maria Ausiliatrice richiesero un aumento d’impiego del personale maschile stipendiato o dei Salesiani coadiutori. Essi furono chiamati a svolgere mansioni e servizi domestici prima inesistenti o coperti dal volontariato femminile, com’era accaduto, sulla scia di Mamma Margherita e della mamma di D. Rua, per varie mamme residenti a Valdocco, fino al 1872.
A seguito della controversia con mons. Gastaldi un problema si aggiunse ai non pochi già esistenti, quello della formazione dei candidati al sacerdozio. Si verificò per questo un mutamento nella fisionomia originaria dell’Oratorio. Fu necessario strutturare la vita in’ modo da affrontare i rigori di visite canoniche preoccupate del corretto spirito ecclesiastico dei giovani leviti. Fu anche necessario stabilire un noviziato tutto per loro e affidarlo al maestro Don Giulio Barberis.
Questa serie di fatti: crescita della Congregazione, aumento dei famigli, singolare separazione nel noviziato dal ramo ecclesiastico non potevano non avere dei contraccolpi sulla figura e sul valore del Salesiano coadiutore. Il processo di diversificazione dai chierici e dai preti e il suo più marcato utilizzo nell’ambito dei servizi riservati ai famigli, cui veniva dato normalmente fino allora anche il nome di ‘coadiutori’, poteva facilmente deteriorarsi in un meccanismo che sembrava declassare l’identità del confratello laico.
Questi elementi di diversificazione e di disagio infatti, a tratti e in alcune comunità, emergevano più del solito e prendevano consistenza nelle lamentele di chi, pur salesiano alla pari degli altri, si sentiva trattato da ‘famiglio’, se non addirittura da ‘servo’. Una lamentela strisciante che, nonostante il passare degli anni e la maggior [pag. 44] consapevolezza acquisita, tornerà a più riprese nella documentazione salesiana.[57]
Un certo stato diffuso di malessere ricorre in varie occasioni sulle labbra di parecchi Coadiutori formati direttamente al contatto vivo con Don Bosco, i quali ne avevano assaporato «il miele» (come dice A. Pelazza) cioè il tratto delicato, affettuoso, comprensivo. Molte reazioni si comprendono meglio, poi, quando si tenga presente la tipologia quanto mai varia dei Salesiani laici: si andava da semianalfabeti, pur ricchi di buon senso, a persone con una certa professionalizzazione. La formazione specifica era quasi nulla. Per cui, quando la carità languiva, si presentavano problemi. Inoltre da secoli il prete era considerato una specie di super-cristiano e un’autorità intoccabile dai buoni cristiani. Questa cultura — che peraltro era in rapido declino a fine secolo per le cause che tutti conosciamo — rendeva più odioso il comportamento di certi preti salesiani che trattavano i Coadiutori come persone di servizio. Basta leggere al-cune proposte avanzate al CG3 (1883) da Coadiutori, per convincersi che il ‘clericalismo’ era nei fatti. Di qui le accorate parole di Don Bosco a sostegno dei Coadiutori. D’altra parte è più che altro problema di persone. Dove la carità era (ed è) vissuta in profondità, le comunità erano (e sono) armoniche, serene.
I documenti conservati, pur nella loro concisione e sobrietà, sembrano tuttavia prendere forza e colore sopra tutto quando riportano la pronta e inequivocabile reazione di Don Bosco. Egli, tutte le volte che ebbe sentore di tale rischio, fu pronto a controbattere ogni alterazione ed ogni eventuale deprezzamento dell’identità del Salesiano coadiutore nella sua Congregazione.
Sono prese di posizione ed interventi che si fanno sempre più decisi e lucidi durante e dopo il CG3, negli ultimi cinque anni della [pag. 45] sua vita, e particolarmente in occasione della sua prima visita al neo-noviziato per Coadiutori e dell’ultimo Capitolo generale prima della sua morte.
Un avvenimento di portata storica fu l’istituzione del noviziato per ascritti coadiutori a S. Benigno Canavese nell’autunno 1883. Veniva così ad essere favorito il processo di diversificazione del Salesiano coadiutore. Il discorso, tenuto da Don Bosco a 22 novizi coadiutori il 19 ottobre 1883 a S. Benigno, sia per il contesto che lo sorregge sia per il contenuto espresso, può definirsi a ragione una pietra miliare nel percorso di chiarimento della figura ideale del Salesiano coadiutore, «un’idea del coadiutore» che, prima di allora, Don Bosco stesso dichiara di non aver mai avuto «tempo e comodità di esporre bene».[59] lo stesso «concetto del coadiutore salesiano»,[60] il «discorso forse più importante» rivolto da Don Bosco ai Salesiani laici.[61]
È pertanto opportuno e utile riportare di seguito l’intera trascrizione trasmessaci da Don Giulio Barberis, prima di enuclearne i punti più significativi- «Il Vangelo di stamattina — esordì Don Bosco — diceva: non temere, piccolo gregge. Voi siete anche il «pusillus grex», ma non vogliate temere, «nolite timere» che crescerete. Sono molto contento che si sia cominciato un anno di prova per gli artigiani con regolarità. È questa la prima volta che vengo a S. Benigno dacché ci siete voi e sebbene sia venuto per la vestizione chiericale e non mi fermi che un giorno, non volli lasciarvi senza dirvi due parole a voi in particolare. Vi esporrò due pensieri. Il primo è manifestarvi qual è la mia idea del coadiutore salesiano. Non ebbi mai tempo e comodità di esporla bene. Voi adunque siete radunati qui a imparare l’arte e ammaestrarvi nella religione e nella pietà. Perchè? perché io ho bisogno di aiutanti. Vi sono delle cose che i [pag. 46] preti e i chierici non possono fare, e le farete voi. Io ho bisogno di poter prendere qualcuno di voi e mandarvi in una tipografia e dirvi: — Tu pensaci e farla andare avanti bene. Mandarne un altro in una libreria e dirgli: — Tu dirigi sicché tutto riesca bene. Mandarne un altro in una casa e dirgli: — Tu avrai cura che quel laboratorio o quei laboratori camminino con ordine e non manchi nulla; provvederai che i lavori riescano come devono riuscire. Io ho bisogno di avere in casa qualcuno a cui si possano affidare le cose di maggior confidenza, il maneggio di danaro, il contenzioso; chi rappresenti la casa all’esterno. Ho bisogno che vadano bene le cose di cucina, di porteria; che tutto si procuri a tempo, niente si sprechi, nessuno esca, ecc. Ho bisogno di persone a cui poter affidare queste incom-benze. Voi dovete essere questi. In una parola voi non dovete essere chi lavora direttamente o fatica, ma bensì chi dirige. Voi dovete essere come padroni sugli altri operai, non come servi. Tutto però con regola e nei limiti necessari; ma tutto voi avete da fare alla direzione, come padroni voi stessi delle cose dei laboratori. Questa è l’idea del coadiutore salesiano. Io ho tanto bisogno di avere molti che mi vengano ad aiutare in questo modo! Sono perciò contento che ab-biate abiti adatti e puliti; che abbiate letti e celle convenienti, perché non dovete essere servi, ma padroni; non sudditi ma superiori. Ora vi espongo il secondo pensiero. Dovendo venire così in aiuto in opere grandi e delicate, dovete procurarvi molte virtù, e dovendo presiedere ad altri, dovete prima di tutto dare buon esempio. Bisogna che dove si trova uno di voi, si sia certi che là vi sarà l’ordine, la moralità, il bene. Che se «sai infatuatum fuerit…» Concludiamo dunque come abbiamo incominciato: Nolite timere, pusillus grex. Non temete, che il numero crescerà; ma specialmente bisogna che si cresca in bontà ed energia. Allora sarete come leoni invincibili e potrete fare molto del bene. E poi, «complacuit vobis dare regnum». Regno e non schiavitù, ma specialmente avrete il regno eterno».[62]
Queste parole sulla bocca di Don Bosco e nel contesto del mondo a lui vicino non destano stupore né apportano grandi novità. Si segnalano per la insistenza e per la fermezza di alcune idee madri, [pag. 47] prima fra tutte quella del coadiutore che risponda adeguatamente aibisogni tipicamente ‘profani’, sopra tutto a quelli che una certa teologia del sacerdozio di quel tempo non vedeva di buon occhio né nelle canoniche né tanto meno nei seminari, e che faccia ciò che l’anticlericalismo dell’epoca non permetteva al prete nelle aree popolari. Questo compito, però, proprio perché diverso da quello dei chierici e sacerdoti e quindi soggetto a possibili discriminazioni,[63] doveva essere esercitato con pienezza di diritti e di autorità.
Il triplice uso della qualifica «padroni» vuole ribadire la piena parità e la piena partecipazione dei Salesiani coadiutori ai vantaggi spirituali e temporali della Congregazione. L’enfasi volutamente usata da Don Bosco puntava, come dirà in seguito il testimone estensore del documento in esame, a «sollevare lo spirito abbattuto dei confratelli coadiutori».[64]
La seconda idea ben sottolineata nella conclusione del discorso di San Benigno ripropone una realtà che è scontata nel progetto salesiano, ma che conveniva ribadire, pena lo stravolgimento del concetto di «padrone». Don Bosco si premura di ricordare che tutto ha un senso in funzione educativa e apostolica. Fuori da quest’ambito, i termini utilizzati non corrispondono più al significato voluto. Infatti, meno di quarant’anni più tardi, durante il CG12 (1922), qualcuno esprimerà perplessità sul resoconto della conferenza di S. Benigno «per aver notato in esso espressioni che potrebbero essere mal interpretate» e ne metterà in dubbio l’autenticità.[65] Le testimonianze che [pag. 47] si diedero immediatamente e il tipo di riflessione che ne scaturì fecero pervenire alla conclusione opposta e misero in evidenza , come dirà poi D. Ceria a questo proposito («Qui Don Bosco va spiegato con Don Bosco»),[66] l’importanza di non prendere isolatamente parole ed espressioni usate dal Santo.[67]
Dopo appena tre anni dalla visita a S. Benigno, in una sede di risonanza ben più ampia e autorevole, Don Bosco ebbe modo, durante il CG4, celebrato a Valsalice nel settembre 1886, di riprendere e puntualizzare i dati salienti dell’identità e della funzione del salesiano laico. Il documento, intitolato appunto «Dei Coadiutori», doveva costituire la risposta al secondo tema «Indirizzo da darsi alla parte operaia nelle case salesiane e mezzi di sviluppare la vocazione dei giovani artigiani». I termini usati e il genere letterario, con il quale il documento fu concretamente redatto e approvato dal Capitolo, risentono molto del linguaggio teologico corrente e accentuano la prospettiva clericale. In particolare, rispecchiano bene quella situazione storica della Congregazione, tutta sollecitata da un crescente apparato istituzionale e chiamata a far fronte a impegni pastorali sempre più vasti.
I lavori di questo ultimo CG presieduto da Don Bosco ci sembrano più netti e comprensibili se letti sull’ampio sfondo panoramico degli avvenimenti salesiani degli anni 1880-1886. [pag. 49]
b. Avvenimenti salesiani 1880-1886.
I decreti contro le Congregazioni religiose del 29 marzo 1880 in Francia[68] avevano certamente spinto i direttori delle tre case francesi allora esistenti, Don Bosco stesso[69] e tutto il corpo direttivo della Congregazione verso una strategia attenta e preventiva. L’ondata anticlericale d’oltralpe confermava vivacemente il vantaggio e l’opportunità di poter disporre sempre più di Salesiani laici. Essi sarebbero stati in grado di poter «fare maggiormente e più liberamente il bene» che non i chierici e i preti in talare.
Intanto i più stretti contatti con la S. Sede, dovuti all’intenso carteggio in occasione delle prime «Relazioni triennali», e sopra tutto il progetto, divenuto poi una provvidenziale realtà, della prima presenza salesiana nella stessa città di Roma, influivano certamente nel dare alla Congregazione una fisionomia e un respiro sempre più inserito nel quadro ampio delle «opere cattoliche», di cui si trattò appunto nel CG del 1886.
L’espansione dei Salesiani, unita a quella delle Figlie di Maria Ausiliatrice sotto la guida di Madre Caterina Daghero, dopo la morte recente di S. Maria Domenica Mazzarello (1881), interessava non solo il territorio italiano e le sue varie zone, ma anche l’Europa con le prime fondazioni in Spagna e l’America Latina con i suoi progressi in Argentina e con gli inizi delle opere in Uruguay e Brasile.
Assumeva poi uno speciale rilievo, proprio all’alba degli anni Ottanta, il primo inserimento dei Salesiani nel’ mondo degli «Indios»,[70] un’impresa che il romanticismo religioso di fine Ottocento sosterrà con tutto il fascino di cui disponeva. All’arcivescovo di Buenos [pag. 50] Aires, mons. Aneyros, che beneficiò dell’aiuto dei salesiani in favore degli emigrati italiani della sua diocesi, parve «giunta l’ora» di «offrire (a Don Bosco tutta) la Patagonia che gli stava tanto a cuore».[71] La risposta di Torino volle essere coerente con l’impegno espresso nella nota frase proferita dal Santo in occasione della prima spedizione missionaria: «Noi diamo principio ad una grande opera».[72]
Il sogno missionario di San Benigno del 1883[73] non aveva fatto altro che stimolare l’entusiasmo e l’adesione alle iniziative per il «nuovo mondo».
È dello stesso anno la venuta a Torino del card. Alimonda. L’anno seguente si realizzò finalmente l’attesa concessione dei privilegi, mentre nel 1885 Leone XIII dà a Don Bosco un Vicario con diritto di successione. Fu scelto Don Michele Rua, di 48 anni compiuti, dei quali ben 40 passati accanto al Fondatore. La nomina fu comunicata con una circolare sul cui frontespizio compariva per la prima volta lo stemma ufficiale della Congregazione.[74]
c. Il documento del 1886 (CG4).
È nel quadro appena tracciato di avvenimenti di vita salesiana, da inserire a loro volta nel contesto più ampio della vita della Chiesa e della società del tempo, che va letto e analizzato il documento «Dei Coadiutori» del CG4 (1886). Nella visione sostanzialmente immutata [pag. 51] dell’identità del salesiano laico, i capitolari di Valsalice, usando un linguaggio insieme teologico-ascetico, giuridico e amministrativo, sembrano sottolineare una loro preoccupazione, quella di ribadire gli «uffici» specifici del confratello coadiutore nel novero dei compiti sempre più vasti dell’apostolato e delle strutture salesiane: «coadiuvare i Sacerdoti nelle opere di carità cristiana proprie della Congregazione… col dirigere e amministrare le varie aziende della nostra Pia Società, col divenire maestri d’arte nei laboratorii, o catechisti negli oratori festivi, e specialmente nelle nostre missioni estere».
L’elenco delle attribuzioni, pur rifacendosi alla prima e nota idea di Don Bosco che riconosceva al religioso laico un ampio margine di responsabilità e di autorità, è subito collegato con l’indole e la natura clericale della Congregazione, un’esigenza su cui la S. Congregazione dei Vescovi e Regolari non aveva risparmiato richieste di garanzia prima e dopo l’approvazione delle Regole.
Il noviziato per soli Coadiutori, istituito sia pure per motivi di vicinanza ad un laboratorio e sopra tutto per riservare ai chierici una specifica formazione allo spirito ecclesiastico, in un arroventato clima di rivendicazione sociale e di elevazione della classe operaia com’era quello di fine Ottocento, poteva rappresentare un rischio concreto: quello di nutrire nei confratelli coadiutori una mentalità rivendicativa o il senso di una posizione subalterna rispetto ai preti che potevano, essi soli, accedere per norma costituzionale alla carica di «superiori».[75]
Per questo il documento capitolare riserva alla questione tutto lo spazio dovuto, utilizzando un linguaggio e un’enfasi (si veda l’uso delle maiuscole) proporzionati all’importanza del contenuto.
«1. (I Coadiutori) mostreranno in ogni tempo e circostanza rispetto ai Superiori e ai Sacerdoti, riguardando in essi dei Padri e dei Fratelli, a cui devono vivere uniti in vincolo di fraterna carità da formare un cuor solo e un’anima sola (Reg. Cap. II, 2). [pag. 52]
2. Disimpegneranno con diligenza l’ufficio che verrà loro assegnato qualunque esso sia, rammentando che non è l’importanza dell’opera che renda questa a Dio gradita, ma è lo spirito di sacrificio e di amore con cui viene eseguita.
3. Non si addosseranno né lavori né commissioni estranee senza espresso consenso dei Superiori.
4. In ogni luogo e circostanza, in casa e fuori casa, nelle parole e nelle azioni mostrino sempre di essere buoni religiosi; poiché non è già l’abito che fa il religioso, ma la pratica delle religiose virtù; e presso Dio e presso gli uomini è più stimato un religioso vestito da laico, ma esemplare e fervoroso, che non un altro adorno di abito distinto, ma tiepido e inosservante».[76]
1.2.2 Lo sviluppo dell’idea nel solco delle origini: da Don Rua al Vaticano II.
A. Rettorato di Don Michele Rua (1888-1910).
a. Dai laboratori alle scuole professionali.
Gli orientamenti del CG4 presentano una linea di condotta che riassume le varie esperienze man mano rivedute e corrette da Don Bosco. Il nostro Santo nell’educazione degli ‘artigiani’ — come fa notare il Ceria — non intendeva fermarsi ai laboratori, ma «erano suo ideale vere scuole professionali; questa fu l’opera di un tempo di cui egli potè vedere solo l’aurora».[77]
È durante il rettorato di Don Rua (1888-1910) che comincia a realizzarsi questa trasformazione. Si fecero eco delle nuove esigenze in questo campo i Capitoli Generali, particolarmente il 7° (1895), 8° (1898) e 10° (1904).
Dal 1898 le scuole professionali salesiane vengono a dipendere da don Giuseppe Bertello (1848-1910), che può considerarsi come il grande organizzatore non solo per l’impulso dato alla loro diffusione [pag. 53] ma soprattutto perché cercò di codificarne l’impostazione tecnica, culturale ed educativa.
Queste modifiche risultarono, nell’ambito del mondo dei confratelli coadiutori, una fonte di cambiamenti di rilievo: le nuove leve, ordinariamente, non provenivano più, né in massima parte, dai giovani o meno giovani collaboratori o da famigli già inseriti a vario titolo nel tessuto dell’attività salesiana, ma sempre più dal settore «scolastico» artigianale o professionale.
b. Alcuni dati statistici.
Quanto al numero dei confratelli coadiutori, si riscontrano due fenomeni di tipo diverso: uno nel ventennio 1880-1900 e l’altro nel ventennio seguente. Nel periodo 1880-1900 si ha un incremento numerico notevole: da 182 si passa infatti a ben 1061 professi coadiutori. Invece nel periodo 1900-1920 l’aumento è molto più contenuto: da 1061 si passa a 1350. La percentuale dei Coadiutori sul totale dei Salesiani, mentre era del 30 % nel 1900, si ferma al 26,4% nel 1920. Vi è pure un netto aumento del livello culturale medio (scompaiono del tutto gli analfabeti), un progressivo avviamento ai titoli professionali e una notevole flessione dei ruoli di pura manovalanza.[78]
c. I documenti.
I documenti del tempo di tanto in tanto tornano ad occuparsi della figura e dei compiti del Confratello coadiutore, ribadendo le indicazioni di base date dal Fondatore e dai Capitoli Generali. Partono dalla necessità di un’intensa opera di reclutamento vocazionale e insistono sulla loro particolare posizione di corresponsabilità educativa, sul loro insostituibile ruolo apostolico e missionario.
La circolare che Don Rua scrive il 31 gennaio 1897 per il 9o anniversario della morte di Don Bosco, tocca precisamente questi argomenti: «Pel carattere poi che è proprio della nostra Pia Società, non solo è riserbata abbondantissima messe per gli ecclesiastici, ma i nostri carissimi confratelli coadiutori sono essi pure chiamati ad esercitare un vero apostolato in favore della gioventù in tutte le nostre [pag.54] Case e specialmente poi nelle nostre scuole professionali; perciò fa d’uopo siano coltivate le vocazioni religiose anche frammezzo i nostri giovani artigiani e coadiutori. Egli è specialmente per tali scuole professionali che la Società Salesiana è tanto desiderata nell’America, Africa, Asia ed in varie nazioni d’Europa. Si fu appunto anche per preparare fra i nostri operai dei coadiutori Salesiani esemplari che il IV Capitolo Generale ha tracciato molte regole improntate di zelo, carità e prudenza per l’indirizzo morale, intellettuale e professionale dei nostri alunni… Alla perfine nell’insistere perché siano coltivate le vocazioni, nulla io propongo di nuovo, nulla domando di straordinario, vi prego solamente di imitare gli esempi di Don Bosco e d’osservare quelle leggi che noi stessi, nel desiderio di maggior bene, ci siamo imposte nei nostri Capitoli Generali».[79]
Don Rua conferma il notevole cambiamento verificatosi nel settore vocazionale, quando enumera i dettagli concreti della strategia da usare: «È di assoluta necessità osservare quali giovani artigiani mostrino qualche segno di vocazione, coltivarli come aspiranti, farli partecipare agli esercizi spirituali durante le vacanze, ricevere (…) le dimande di quelli che desiderano essere ascritti quando hanno raggiunta l’età di 16 o 17 anni».[80]
L’anno seguente, nella lettera circolare del 24 giugno 1898, D. Rua insiste ancora: «Né solo vi esorto a coltivare giovani che danno buone speranze pel chiericato, ma ancora quelli che potranno farsi buoni coadiutori e capi di arte. Sapete che da tutte le parti e specialmente dai luoghi di missione ci si fanno istanze affatto straordinarie per l’impianto di laboratorii, case di arti e mestieri, poiché uno dei bisogni più grandi della società moderna è di educare cristianamente l’operaio».[81]
Molti giovani dei nostri collegi appartenevano proprio a famiglie colpite dalla crisi economica. La figura del Salesiano coadiutore che si occupava di loro e che, come tecnico e maestro di laboratorio, univa alla stabilità e alla certezza di una sistemazione sociale [pag. 55] anche la testimonianza piena della risposta cristiana ai problemi sociali del tempo, costituiva una forte spinta di orientamento per i più sensibili al discorso vocazionale, spesso privi di altri sbocchi professionali.
Di fatto colpisce l’apertura di ben 6 nuovi noviziati, fondati proprio in questi anni: a Lorena nel Brasile (1890), a Bernal in Argentina (1895), a Santiago-Macul nel Cile (1895), a Genzano presso Roma (1896), ad Arequipa nel Perù (1897) ed a Burwash presso Londra (1897).[82]
L’alba del nuovo secolo apriva il mondo salesiano a una più grande speranza d’impiego nella missione poiché il personale cresceva in numero e qualità. È dei primi giorni dell’anno 1900una lettera di Don Rua. Essa offre notizie e comunicazioni che ci consentono una più aggiornata conoscenza della situazione: «Devo poi mandare una parola di meritata lode a quei Direttori e Prefetti delle nostre case, che col loro zelo industrioso seppero trovare e coltivare il seme della vocazione Salesiana tra i nostri famigli in guisa da farlo attecchire. Ottima cosa questa perché oltre il gran vantaggio che si procura alle anime loro col farli religiosi, si aumenta il numero dei Confratelli Coadiutori dei quali sente tanto il bisogno la nostra Pia Società. E a questo proposito ho pure il piacere di dirvi che il desiderio espresso in altre mie di veder moltiplicarsi le case di noviziato per coadiutori e artigiani non fu voce gettata al vento, giacché lieto posso annunziarvi che tali case sono già in numero di sette e producono consolanti frutti. È da desiderarsi che se ne aumenti il numero e che per quanto è possibile tutte le ispettorie ne abbiano almeno una».[83]
La continua crescita ed espansione dell’opera salesiana pare spingere a voler sopperire con questi autorevoli richiami a una certa, appena percettibile, caduta di interesse per la novità del confratello coadiutore. Una pur veloce scorsa alla ricca e vivace produzione a stampa e alla propaganda salesiana dell’epoca, ai temi scelti e dibattuti nei noti congressi dei Cooperatori (in quello di Bologna nel 1895 e di Buenos Aires cinque anni dopo), è sufficiente a far notare [pag. 56] come scade l’attenzione verso la componente laicale della Congregazione. Lo stesso meccanismo di preparazione e di risonanza delle prime fasi del processo di canonizzazione di Don Bosco serviva a diffondere sempre più nel mondo l’immagine del salesiano in talare come prolungamento naturale e logico del «santo prete dei ragazzi di Torino». Il Salesiano in abiti borghesi passava in second’ordine.
In realtà il pericolo era piuttosto per l’immagine esterna delle opere salesiane. All’interno delle comunità «il processo di armonizzazione tra preti, chierici e coadiutori prevaleva di gran lunga su quello di differenziazione e di confronto. Nelle singole case fungevano da elementi amalgamanti la meditazione in comune, l’uniformità nella mensa, la corresponsabilità nell’assistenza dei giovani, la preparazione di teatrini e festicciole. A livello ispettoriale svolgevano analoga funzione gli esercizi spirituali annuali. Il consenso congiunto di preti e laici si coagulava facilmente nella figura di coadiutori che si distinguevano per laboriosità, giovialità e osservanza religiosa. Ogni casa poteva contare su qualche coadiutore che rispecchiava i modelli della generazione precedente. San Benigno e Torino ebbero il capo sarto Pietro Cenci (1871-1939). Valdocco ebbe tra gli altri l’architetto Giulio Valotti (1881-1953), in Argentina si distinsero il tipografo e giornalista battagliero Carlo Conci (1877-1947) e l’architetto Enrico Botta (1859-1949). L’Ecuador ebbe Giacinto Pancheri (1857-1947) ardito costruttore di strade e ponti. Il Belgio ebbe il musicologo Antoine Auda (1879-1964). I coadiutori addetti ai lavori di esercizio domestico e a quello dei campi continuarono ad esistere ed erano talora tra i più spiritualmente affinati. Valdocco ebbe il signor Giuseppe Balestra (1868-1942); la Palestina, il servo di Dio Simone Srugi (1878-1943)».[84]
Il che non toglie che lo stesso Don Rua sentisse il bisogno di intervenire il 1 novembre del 1906, per respingere con la stessa energia e commozione di Don Bosco, il ricorrente rischio di un deprezzamento: «Conviene che coi fatti e non solo colle parole — egli scriveva — dimostriamo di tenerli quali nostri fratelli». [pag. 57]
B. Nella Congregazione in espansione: dal rettorato di Don Paolo Albera (1910-1921) a quello di Don Renato Ziggiotti (1952-65) e al Concilio Vaticano II.
a. Dopo la prima guerra mondiale.
Dopo la crisi della prima guerra mondiale inizia quel periodo di storia del Salesiano coadiutore che va dal rettorato di Don Albera (1910-21) a quello di Don R. Ziggiotti (1952-65), indicativo di una nuova via da percorrere per incrementare le vocazioni e di una nuova linea di formazione religiosa per confermarle.
Per far fronte in modo adeguato alla domanda di personale, i documenti della Congregazione ribadiscono incessantemente l’esigenza della cura e del perfezionamento delle vocazioni dei confratelli coadiutori. «Da molte parti — si legge in una circolare del 1920 — si ricevono insistenti domande di personale, specialmente di confratelli coadiutori. (…) Mi permetto d’insistere sopra questo punto, perché non sarà mai ripetuto abbastanza che il progresso delle nostre Scuole Agricole e Professionali dipende in massima parte da personale ben preparato sia dal lato religioso che da quello tecnico».[85]
Di questo stesso tenore è anche la lettera seguente del 24 dicembre del medesimo anno: «È sopra tutto tra gli umili — scriveva lo stesso Consigliere Professionale Generale, D. P. Ricaldone — educati in un ambiente di semplice proprietà) schietta famigliarità, pietà soda, studio e lavoro improntati a serietà e ravvalorati dal sacrificato interessamento del personale, che sbocciano e maturano le serie vocazioni».[86]
Don Albera nel 1921 interverrà con una sua circolare «Sulle vocazioni»[87] dove, scrive D. Braido «offre due pagine tra le più significative e ricche, dove è colto con acutezza e precisione il motivo della missione apostolica ed educativa che il Coadiutore ha in comune [pag. 58] con il Sacerdote, con la negazione perentoria di ogni dualismo e l’affermazione decisa delle sue attribuzioni quale membro di una Congregazione effettivamente educatrice».[88] In questa lettera per la prima volta si accenna anche alla capacità di scoperta e di accompagnamento delle vocazioni affidata primariamente agli stessi confratelli coadiutori: «Ma sopra tutto queste vocazioni di coadiutori debbono cercarle e coltivarle i coadiutori stessi, non solo nelle scuole e laboratorii, dove se ne offre forse meno facile il destro, ma nelle ricreazioni, durante le quali debbono stare anch’essi in mezzo ai giovani, prendendo parte amichevolmente ai loro giuochi e conversazioni. In questo i buoni coadiutori possono esercitare un’influenza più efficace che non i chierici e i sacerdoti; infatti un chierico, un sacerdote, può tutt’al più descrivere ai giovani la vita del coadiutore salesiano, ma il coadiutore questa vita la vive dinanzi ai loro occhi, offre loro un modello e si sa che ‘verba movent, exempla trahunt’: se le parole possono muovere, gli esempi trascinano…».[89]
b. Rettorato di D. F. Rinaldi (1922-1931).
Gli elementi, sopra tutto quelli di principio, riproposti nella circolare di Don Albera, in concomitanza con altri fenomeni di natura religiosa e socio-economica, costituiranno le radici di quel complesso e organico lavoro che si realizzò nel decennio 1922-1931. Il rettorato di Don Rinaldi è stato definito il periodo «più fecondo e fondamentale per un rilievo più spiccato e maturo dell’idea del coadiutore)».[90]
Questo decennio vede l’opera concertata del Consigliere Professionale Generale Don Giuseppe Vespignani e del Prefetto Generale Don Pietro Ricaldone, sotto l’ispirazione di Don F. Rinaldi, Rettor Maggiore.
[pag. 59] Il CG12 trattò come tema V: «Sulla base delle nostre Costituzioni [aggiornate al recente Codice di Diritto Canonico]: procurare una più soda coltura religiosa e maggiore abilità professionale ai confratelli coadiutori; cercare quali altre forme di scuola professionale si potrebbero adottare oltre quella comunemente in uso di scuole interne per alunni interni».
E il Consigliere Professionale Generale (D. G. Vespignani) notava in ACS n. 16: «Il Capitolo Generale testé compiutosi (…) ha rilevato ancora una volta il difetto tra noi di personale capace a compiere la nostra missione nel campo professionale ed agricolo, in altri termini non si sa oggi come provvedere nelle Ispettorie per il nuovo personale professionale salesiano. Mentre ogni anno si fa quanto di meglio per raccogliere da ogni nostro collegio ed oratorio un contingente di Aspiranti per l’abito chiericale, ben poco si fa o si ottiene per il contingente di Aspiranti alle Scuole professionali, contingente che dovrebbesi ottenere parallelamente al primo. È necessario adunque impegnarsi su questo punto per quanto sta in noi, onde riempire il vuoto che il nostro importantissimo apostolato richiede, e pertanto cercare fin dall’inizio delle Scuole professionali ed agricole istituite, dal primo periodo di accettazione degli alunni, dai primi corsi di educazione professionale, quegli artigiani ed agricoltori che in qualche modo addimostrino i germi di una vocazione da coltivarsi, e quindi condurli con amorevole cura al nostro scopo. Che anzi, ad ottenere i mezzi adatti perché questa categoria di allievi si formi ad una vera vita salesiana all’altezza della sua coltura professionale e agraria, si dovrà convenientemente pensare a Centri di formazione, dove detta coltura sia non solo mantenuta ma perfezionata. È necessario che ciascuno nella sua cerchia pensi, e si adoperi ad avvicinare, presentare, favorire, coltivare i soggetti che diano qualche speranza fin dall’inizio. Data poi la scarsità attuale di Maestri professionali salesiani disponibili che vorrebbesi sottrarre dalle Case Centrali di formazione, per fornire le Ispettorie, credo mio dovere insistere presso i Superiori, perché non si spanda questo scarso elemento già formato in parte, ma si cerchi piuttosto di concentrarlo dimodoché si possano stabilire delle Scuole di perfezionamento, cominciando dalle Ispettorie più importanti o assegnando una medesima casa per Ispettorie aventi la medesima lingua ed aumentandole in seguito sino ad essere possibilmente una o più in ogni Nazione. [pag. 60] Queste case saranno come vivai salesiani dei maestri d’arte o capi-agricoltori».[91]
Don Vespignani provvide anche a motivare storicamente il decisivo incremento didattico ed edilizio del settore scolastico professionale ed agricolo deciso nel 1920 per tutta la Congregazione.[92] L’Archivio centrale della Congregazione conserva vari scritti di Don Vespignani[93] sull’argomento. Pur essendo tutti allo stato di «appunti», presentano una sua «Storia del Coadiutore Salesiano». I testi lasciatici, a parte il merito indiscusso di primo tentativo di riflessione storica sul dato vissuto, si limitano ad una, semplice concatenazione descrittiva dei fatti avvenuti, vivente Don Bosco, e normalmente tramandati dalla tradizione salesiana.
In realtà, «Il Coadiutore Salesiano nel pensiero di Don Bosco», una lettera fondamentale che il Rettor Maggiore, Don Filippo Rinaldi pubblicò sugli Atti del Capitolo Superiore del1927[94] esprime bene un permanente collegamento con la tradizione salesiana, con quella delle origini specialmente, che vede nei confratelli coadiutori dei continuatori della missione di Don Bosco e, allo stesso tempo, ne aggiorna la figura applicando ad essa i valori che i progressi della teologia avevano posto in evidenza. Sembrano risuonare le accorate espressioni già usate da Don Bosco e da Don Rua: «Per il Fondatore — è scritto — i sacerdoti assumono sì, con l’Ordine sacro, maggiori doveri e responsabilità, ma i diritti sono uguali, tanto per essi e i chierici, quanto per i coadiutori, i quali non costituiscono punto un secondo ordine, ma sono veri Salesiani obbligati alla medesima perfezione e ad esercitare ciascuno nella propria professione, arte o [pag. 61] mestiere, l’identico apostolato educativo che forma l’essenza della Società Salesiana… Egli l’ha voluto uguale a sé e ai suoi figli elevati alla dignità sacerdotale: i mezzi, le provvisioni, le armi, i sostegni, la meta e i meriti sono identici per tutti, come il vitto quotidiano».[95]
Non manca una certa enfasi, una certa tonalità nuova o meglio un modo nuovo di guardare la realtà di prima: «Il Coadiutore Salesiano non è il secondo, né l’aiuto, né il braccio destro dei sacerdoti suoi fratelli di religione, ma un loro uguale che nella perfezione li può precedere e superare come l’esperienza quotidiana conferma ampiamente (…) La chiamata del Signore: «Si vis perfectus esse», non è solo per il sacerdozio, né è solo per il piccolo numero di quelli destinati a compiere gli umili servizi delle comunità religiose; ma anche e più ancora per quelli che bramano fare vita religiosa, consacrandosi con voto a insegnare nelle scuole primarie e secondarie, ad assistere giorno e notte moltitudini di giovani, ad essere maestri e capi nelle scuole delle molteplici arti, richieste dall’umano consorzio, e nelle scuole agricole che preparano i maestri destinati ad insegnare la professione tanto nobilitata da Gesù nelle sue parabole, il quale non si peritò di chiamarla la professione stessa del suo Padre celeste: Pater meus agricola est».[96]
Quasi a complemento della lettera di Don Rinaldi, il fascicolo del 24 ottobre 1930 degli ACS riporta un semplice commento di D. Giuseppe Vespignani allo storico discorso di Don Bosco a S. Benigno Canavese nel 1883, «rivolto soprattutto a metterne in evidenza gli aspetti formativi, ascetici, religiosi».
Un importante elemento per la formazione del Salesiano coadiutore e per una maggiore sensibilizzazione nei suoi confronti fu l’istituzione e l’organizzazione degli Aspirantati per Coadiutori e delle Case per il loro perfezionamento dopo il noviziato. Alle case di Ivrea, di Foglizzo e di Penango si affianca con tutto il peso di «un’opera di primaria importanza», come la definì Don Rinaldi,[97] la casa di Cumiana per gli aspiranti coadiutori avviati a lavorare nel settore agricolo. Tre anni dopo, nel 1930, un’altra munifica donazione, l’Istituto Conti Rebaudengo (Torino), diventava centro di formazione [pag. 62] professionale missionaria. Nell’Istituto Bernardi Semeria, già eretto al Colle Don Bosco fin dal 1918, si avviava contemporaneamente l’aspirantato che orientava i ragazzi ai corsi agricoli e professionali e i giovani Salesiani coadiutori, già in possesso della qualifica professionale di base, ai corsi di perfezionamento.
c. Rettorato di Don P. Ricaldone (1932-1951).
La circolare di Don Ricaldone sul «Noviziato» (aprile 1939) sottolinea la validità del noviziato unico tanto per gli ascritti chierici come coadiutori. Detta lettera contiene anche dati utili per fare il punto sulla concezione del Salesiano coadiutore in quel tempo e sui rapporti esistenti all’interno della Congregazione. «Anzitutto premettiamo che, quantunque il can. 564 par. 2 stabilisca che nel noviziato sia assegnato ai conversi un posto separato, nella nostra Società non esiste di fatto quella differenza, che si avvera in altri ordini religiosi, tra i chierici e i coadiutori. Inoltre, precisamente per rendere sempre più forte l’unione fra tutti i soci, è bene affratellare, fin dal noviziato, i chierici e i coadiutori, essendo che essi dovranno poi ritrovarsi costantemente a contatto nei nostri istituti per attuarvi il programma salesiano nelle molteplici sue estrinsecazioni. La separazione nel noviziato potrebbe quasi avere il sapore, se non il significato, di una diversità di ideali, mentre invece i figli di S. Giovanni Bosco hanno bisogno di affiancarsi, di procedere fraternamente uniti nell’attuazione delle identiche finalità della loro missione. Il coadiutore salesiano, anche se non è sacerdote, è e dev’essere innanzitutto un educatore, e questo suo apostolato egli dovrà compierlo con identità di intenti e generalmente nello stesso campo dell’Oratorio festivo, delle Scuole professionali e agricole, delle Missioni, nell’assistenza, nella scuola, nel laboratorio, a fianco e in unione de’ suoi fratelli sacerdoti e chierici a vantaggio delle stesse anime. (…) Pertanto la pratica ch’è in uso presso di noi esclude che debba applicarsi ai religiosi della Società il can. 558 ove si dice che ‘nelle religioni nelle quali vi sono due classi di membri, il noviziato fatto per una categoria non è valido per l’altra’: nella nostra Congregazione v’è una sola categoria di soci. La accidentale diversità di attribuzioni altro non fa che integrare, perfezionare e rafforzare l’omogeneità delle finalità e del corpo stesso della Congregazione. D’altronde l’articolo 12 delle Costituzioni, parlando della forma della [pag. 63] Società, dice espressamente che la nostra Società consta di ecclesiastici e di laici che conducono la stessa vita comune. (…) Naturalmente l’unione nello stesso noviziato dei chierici e dei coadiutori esige che, nell’attrezzare la casa che li deve accogliere, si tenga conto di tutto ciò che è richiesto per la conveniente formazione delle diverse categorie dei nostri coadiutori, provenienti dalle Scuole professionali, agricole e dalle altre case e mansioni. Non è il caso di organizzare dei veri e grandi laboratori. (…) In pratica s’è visto ch’è relativamente facile provvedere il fabbisogno dei sarti, calzolai, falegnami, scultori; anche per i meccanici ed elettricisti si può man mano avere gli elementi più indispensabili. Per tutti poi, e, particolarmente per gli allievi delle scuole del libro, si dia maggior comodità di esercitarsi nel disegno. Gli agricoltori avranno modo di lavorare nell’orto, nel giardino e nelle industrie agricole: gli altri coadiutori potranno dare un aiuto efficace nelle svariate faccende domestiche».[98]
Confermato il noviziato unico, si ritenne, valida la formula del proseguimento dell’aspirantato separato e, per quelli dotati di un titolo professionale di base, di un biennio o un triennio di perfezionamento per soli confratelli coadiutori.
Il CG15 (1938) approvò pertanto, insieme al regolamento per tutte le case di formazione, quello per il corso di perfezionamento dei confratelli coadiutori, proposto ‘ad experimentum’ per un sessennio.[99] La disposizione fu poi rinnovata, nel 1947, dal CG16.
L’imperversare della seconda guèrra mondiale, preceduta dalla guerra civile spagnola (1936), accompagnata dalla persecuzione nazista in Polonia (1939) e seguita dalle espulsioni comuniste a Pechino (1948), dall’internamento di oltre 300 Salesiani slovacchi (1950) e dalla chiusura di numerose case nell’Europa nata dalla Conferenza di Potsdam, non indebolirono la forte tempra di Don Ricaldone che, proprio in quegli anni di martirio e di violenza, ritenne indilazionabile l’applicazione di un programma formativo graduale anche per i confratelli coadiutori. A questa pianificazione ideale è sempre da affiancare la permanenza di una prassi che, subito dopo il noviziato, [pag. 64] destinava una parte di Salesiani coadiutori, non operanti in specifici rami professionali, presso le comunità come addetti ai servizi della casa: guardarobieri, cuochi, dispensieri o tuttofare. Ma la figura del salesiano coadiutore che in quegli anni tende a formarsi e a mettersi in evidenza, grazie proprio all’influsso della preparazione culturale impartita nei centri di perfezionamento, è quella del Salesiano coadiutore capo-laboratorio, insegnante tecnico, educatore di giovani apprendisti.
Nel 1948 nasce la rivista «Il Salesiano Coadiutore» che offre non pochi spunti di analisi. Tra le varie rubriche di questa rivista trimestrale[100] particolare peso aveva quella intitolata «Vocazione e vocazioni». Ospitava interventi, contributi e riflessioni sulla identità e sul ruolo del salesiano laico. Non è difficile notare quanto variano l’impostazione e i contenuti, passando, nella lettura, dagli articoli delle prime annate, dove c’è un riferimento continuo alle origini e al pensiero di Don Bosco e di Don Rinaldi, a quelli degli anni 1954-1957, dove si insiste maggiormente sulla «novità», sull’«apostolato» e sulla «preparazione tecnica».[101]
Nel 1950 l’allora Consigliere Generale Professionale, Don Antonio Candela, presentò, nel Congresso generale sugli stati di perfezione tenutosi a Roma in quell’anno, una relazione sul Salesiano coadiutore. In essa appaiono ben individuate le sorgenti giuridiche, storiche, religiose e pedagogiche dalle quali, a suo parere, scaturisce la figura del religioso salesiano laico, anzi del «salesiano in borghese».[102] Don Braido inserisce questo contributo nella sua collectanea di testi «ufficiali» sul Salesiano coadiutore, adducendo varie ragioni. [pag. 65] Ne sottolineiamo una specialmente. Il contributo «riassume in forma lineare — egli scrive — i migliori risultati della tradizione dottrinale e pratica salesiana sull’argomento, paragonabile ad una specie di ‘magistero ordinario’ della Congregazione in questo settore vitale».[103]
Vale dunque la pena riportarne i brani più significativi. Il Salesiano coadiutore si pone come«una nuova figura, che si va delineando nelle Congregazioni clericali di oggi», un religioso che «si affianca al religioso Sacerdote per dividere con lui, nella misura della sua condizione, le fatiche, le responsabilità e le gioie dell’apostolato moderno».
La novità di questi religiosi laici rispetto agli antichi ‘conversi’ è racchiusa, a parere di Don Candela, in due considerazioni:
«a) Per le mansioni che ad essi vengono affidate: queste sono svariate e le condividono con i loro confratelli sacerdoti, eccettuate naturalmente quelle che rilevano dal carattere sacerdotale. L’agile struttura di queste Società e la molteplicità delle loro attività offrono ai laici un vasto campo di apostolato. Mentre i meno istruiti si santificano negli umili lavori delle singole case, i professori si santificano sulle cattedre, dalla prima elementare alle universitarie; i maestri d’arte nei loro laboratori-scuola, in ogni mestiere e specializzazione; gli agricoltori nei campi; altri negli Oratori Festivi, come assistenti, dirigenti di gruppi di A. C., di circoli sportivi, artistici ed altri. E tutto ciò non solo nei paesi civili, ma anche nelle terre di missione.
b) Per il loro numero. Una tale molteplicità di oggetti a cui si indirizzano queste Società richiede naturalmente un numero grande di operai evangelici anche non sacerdoti. In un convento possono essere sufficienti pochi ‘conversi’, tanto da assicurare i lavori domestici della comunità. Qui al contrario è necessario aprire la via della perfezione a tutti quei laici che si sentono chiamati a santificarsi nella vita di comunità, esercitando tutte le forme dell’apostolato e della propaganda cristiana». [pag. 66]
d. Rettorato di Don Renato Ziggiotti (1952-1965).
Il CG17, convocato nel gennaio 1952, quasi fosse un anello di collegamento fra le ultime disposizioni di Don Ricaldone[104] e i primi impegni di Don Ziggiotti, ebbe come primo tema di studio la formazione culturale, professionale e religiosa del Salesiano coadiutore. Lo stesso Don Ziggiotti in ACS (ottobre 1952) presenta le deliberazioni prese, le «direttive per il corso di perfezionamento dei confratelli coadiutori» e le «raccomandazioni» sul personale.[105]
Tutto il lavoro di un’epoca di trasformazioni, di concreto apprendimento e di operosità organizzativa sfocerà nella codificazione di questa materia che nel 1954 entrerà a far parte dei «Regolamenti della Società Salesiana».[106]
La Congregazione era entrata nella seconda metà del secolo XX affermando l’accresciuta coscienza della novità e dell’essenziale funzione del Salesiano coadiutore. Si arriverà fino alle soglie del ventennio successivo con un progressivo aumento globale dei Salesiani, fino a raggiungere la punta massima di 21. 614 professi nel 1967.
Ma proprio in questi anni si profilano, soprattutto nelle società occidentali, i primi fermenti di vasti e profondi cambiamenti. Le loro ripercussioni non tarderanno ad influire sulle strutture e nella vita degli Istituti religiosi. [pag. 67]
Per quanto riguarda il settore dei Salesiani coadiutori, sopra tutto di quelli destinati alle scuole professionali e agricole, si cominciò ad assistere alla lenta ma inesorabile diminuzione di allievi e di commesse di lavoro per i settori di puro artigianato, come la falegnameria, l’arte del ferro battuto, la calzoleria, la sartoria e la legatoria. Le diverse possibilità di concreti posti di lavoro nell’industria e l’incipiente ma crescente automatizzazione orientavano verso altre strade i giovani apprendisti. I mutati rapporti di mercato venutisi a creare dopo il secondo conflitto mondiale obbligavano i vari stati a far fronte tempestivamente alle nuove esigenze modificando i quadri professionali disponibili. Tutto ciò richiedeva la revisione delle strutture scolastiche e di laboratorio, la revisione delle materie di apprendimento e la riqualificazione del personale insegnante.
I Salesiani coadiutori furono i primi a risentire dei comprensibili contraccolpi di queste modifiche spesso radicali.
Non pochi fra loro, inseriti da sempre in uno specifico settore di attività, si trovarono ‘dequalificati’ e obbligati ad assumere attività e settori di presenza apostolica ed educativa nuova e comunque diversa da quella a cui il lungo ‘iter’ formativo precedente li aveva destinati. Se si tiene conto che la loro età media nel 1970 sarà di 42,6 anni non sarà difficile comprendere il disagio e lo scompenso che questa situazione veniva a creare. La stessa curva delle vocazioni ha una flessione, registrando un calo nella percentuale dei Coadiutori sul totale dei Salesiani; si passa dal 21 per cento (ancora registrato negli anni 50) al 18, 35% nel 1974.
1.2.3 Nell’impegno di rinnovamento del post-concilio
A 150 anni dalla nascita di Don Bosco, la dichiarazione fatta da Don Luigi Ricceri, eletto Rettor Maggiore (1965-1977), che sarebbe poi divenuta programma di lavoro e di governo, esprime bene i connotati del momento storico a cui si riferisce: «Avanti con Don Bosco vivo, oggi, per rispondere alle esigenze del nostro tempo e alle attese della Chiesa».[107] [pag. 68]
La Congregazione da un decennio circa era entrata nel suo secondo secolo di vita e doveva essere in grado di affrontare situazioni inedite e parzialmente originali. Le rapide trasformazioni del mondo, gli appelli che lanciava, le condizioni nuove anche in seno alla Chiesa stimolarono la ricerca di orientamenti adeguati. Queste indicazioni di rotta attinsero la loro forza e la loro ispirazione innanzi tutto nei documenti del Concilio Vaticano II. Nella fedeltà essenziale e dinamica al progetto apostolico ed educativo di Don Bosco non bastava adattare vecchie formule, pur ottime e risolutive negli anni precedenti, ma, data la inarrestabile accelerazione del movimento delle idee, occorreva crearne delle nuove. Il clima irrepetibile dell’immediata preparazione e dell’inizio dei lavori conciliari agì come potente fermento entro la vita della Congregazione. Già qualche anno prima del noto «Sessantotto», carico di vivaci inquietudini e attese giovanili, i Salesiani si trovarono interpellati e impegnati, come mai nella storia dei precedenti Capitoli generali, a preparare e a dar l’avvio nel 1965, attraverso il Capitolo Generale XIX, al loro rinnovamento e ridimensionamento. Tra i 22 Documenti capitolari, il 5° porta come titolo «Il Salesiano Coadiutore».
Nello spirito della svolta conciliare, durante il ventennio seguente, vengono elaborati, soprattutto nell’ambiente dei Capitoli Generali, importanti documenti sul Salesiano coadiutore. Poiché essi costituiscono oggetto di riflessione nelle pagine che seguono, ci limitiamo qui a indicarli cronologicamente.
Il CG20 (1971-72) fu convocato per adempiere le richieste del ‘Motu proprio’ «Ecclesiae Sanctae». Preparato da ben due Capitoli ispettoriali e seguito da un terzo, promosse un’intensa opera di mentalizzazione tra i confratelli.
Dal 31 agosto al 7 settembre 1975 si svolse a Roma il Convegno Mondiale Salesiano Coadiutore.
Il CG21 (1977-78) raccolse i risultati del primo periodo di «sperimentazione» delle Costituzioni rinnovate. Tra i cinque Documenti capitolari, il 2° ha come tema «Il Salesiano Coadiutore».
Gli ACS n. 298 (ott.- dic. 1980) riportano l’importante lettera del Rettor Maggiore, Don Egidio Vigano, su «La componente laicale della comunità salesiana».
Il CG22 (1984), oltre alla rielaborazione conclusiva del testo delle Costituzioni e Regolamenti, emanò alcuni ‘Orientamenti operativi [pag. 69] e deliberazioni’, di cui il 3° si riferisce a «La componente laicale». Costituisce una delle quattro priorità indicate dal Rettor Maggiore, Don Egidio Vigano, in ACS n. 312 (genn. -marzo 1985) a tutta la Congregazione.
Tutti questi eventi ebbero l’intento medesimo che esprimeva Don Ricceri introducendo i lavori del Convegno Mondiale: «Per la prima volta, egli diceva, la Congregazione ufficialmente si pone in forma così approfondita, larga, sistematica, in piena e amorosa volontà di ricerca, il grande quesito: il Salesiano Coadiutore che cosa è e che cosa vuol essere? come vive e sente, alla luce della realtà odierna, l’ideale della sua vocazione religiosa-laicale a servizio della missione salesiana? quali ostacoli si frappongono alla sua realizzazione e al pieno e fecondo sviluppo della vocazione dell’«apostolo nuovo per il mondo nuovo?».[108]
NOTA. Nelle sezioni/capitoli che seguono si fa il punto sullo stato attuale [al 1989] della riflessione sul Salesiano Coadiutore e del vissuto in cui si va concretando nelle presenti circostanze.
I brevi lineamenti storici sin qui offerti vogliono appunto aiutare a cogliere nelle esperienze attuali quelle linee di forza che sono presenti direttamente, anche se in germe, nel carisma di Don Bosco Fondatore.
⇑[1] Il materiale di questa «nota storica» è preso sostanzialmente da M. Sauvage, art.Fratello in Dizionario degli Istituti di Perfezione, dir. G. Pelliccia-G. Rocca, vol IV, Roma 1977, col. 762-794. Ivi, bibliografia sul tema specifico, alle col. 792-794. Si possono utilmente consultare gli Atti dei vari convegni sulla figura del religioso laico tenuti dai singoli Istituti religiosi o in diverse aree geografico-linguistiche, che hanno rivolto uno sguardo anche ai secoli scorsi. Così ad es. la relazione di T. Turrisi su La figura storico-giuridica del religioso fratello dalle origini al Vaticano II, in Il Fratello religioso nella comunità ecclesiale oggi, Roma 1983, p. 25-49.
⇑[2] Cf G. M. Colombas, El monacato primitivo, I, Madrid 1974 p. 64-68.
⇑[3] M. Sauvage, o. c, col. 766.
⇑[4] Ib. col. 766.
⇑[5] Ib. col. 768.
⇑[6] Ib. col. 769.
⇑[7] Ib. col. 770.
⇑[8] P. Stella, Cattolicesimo in Italia e laicato nelle Congregazioni religiose. Il caso dei coadiutori salesiani (1854-1974), in Salesianum XXXVII (1975) 411.
⇑[9] L’ultimo tentativo, dopo quelli operati da Pio VII subito dopo il suo ritorno dall’esilio a Roma, e di Leone XII, limitati agli Ordini e Congregazioni esistenti nello Stato Pontificio, era proprio quello di Pio IX che nel 1847 istituiva una Congregazione sopra lo stato dei Regolari e inviava il 7 agosto dello stesso anno a tutti i vescovi dei vari Stati italiani una lettera circolare con la quale invitava «a somministrare le opportune notizie sullo stato dei Regolari; a specificare le cause degli abusi che si fossero introdotti in queste Corporazioni religiose, e a indicare i mezzi più convenienti ed efficaci a rimuoverle». Tutta la documentazione, che è conservata presso l’Archivio Segreto Vaticano, attesta puntualmente il diffuso malessere e il bisogno di concreto ripensamento delle strutture religiose rispetto alle nuove esigenze dei tempi.
⇑[10] P. Braido, Religiosi nuovi per il mondo del lavoro, Roma 1961, p. 16-17.
⇑[11] Si vedano gli Atti del convegno di studi Lodovico Pavoni e il suo tempo 1784-1849.,Brescia 30 marzo 1985.
⇑[12] Due indicazioni si trovano in una lettera del Rosmini a Don Bosco del 1853 e l’altra in un accenno ad una «missione bresciana» dell’amico Don P. Ponte, allora direttore dell’Oratorio S. Luigi a Porta Nuova, alla fine del 1849. È molto probabile comunque che Don Bosco abbia avuto diretti legami almeno con la produzione libraria della tipografia dell’Istituto di S. Barnaba da dove tra l’altro venne fuori l’Opera omnia di San Francesco di Sales.
⇑[13] Cf. D. Veneruso, Dai laboratori agli istituti professionali, in P. Braido, Don Bosco nella Chiesa a servizio dell’umanità. Studi e Testimonianze, LAS Roma 1988, p. 133.
⇑[14] MO, 205; come anche si veda in «Invito ad una lotteria d’oggetti in Torino a favore degli Oratori», gennaio 1862.
⇑[15] Cf. MB 4, 660. Sulle ragioni e le modalità di impianto dei laboratori interni a Valdocco si veda P. Stella, Don Bosco nella storia economica e sociale (1815-1870), Roma 1980, p. 243-249, 383-386.
⇑[16] Si trovano richieste in tal senso in alcuni numeri del giornale locale L’Armonia di quell’anno: cf. MB V, 540.
⇑[17] La tipografia comincerà il 31 dicembre 1861 e il laboratorio per fabbroferrai inizierà in concomitanza ai lavori del Santuario di Maria Ausiliatrice nel 1862.
⇑[18] MB VII, 116.
⇑[19] MB X, 946.
⇑[20] MO, 45.
⇑[21] MO, 62s.
⇑[22] MO, 95s.
⇑[23] 24 luglio 1927.
⇑[24] Le prescrizioni sinodali e la letteratura formativa ecclesiastica dell’Ottocento intervengono continuamente nel ribadire l’inopportunità per il sacerdote di occuparsi o praticare lui stesso lavori «servili o profani» : si veda A. Gambasin, Gerarchia e laicato in Italia nel secondo Ottocento, Antenore Ed., Padova, 1969, 330 p.
⇑[25] E. Ceria, Annali della Società Salesiana, Voi. I, Torino 1941, p. 651-652.
⇑[26] Da un promemoria di Don Bosco al Presidente del Comitato Tipografico di Torino nel 1872: cf. Epist. II, p. 2334 (data incompleta).
⇑[27] A. Peano entrò all’Oratorio nel dicembre 1854; vi rimase meno di tre mesi, uscì infatti il 23 febbraio del 1855. Cf. P. Stella, Cattolicesimo…, o. c, p. 413.
⇑[28] Ibidem.
⇑[29] Ivi, p. 412.
⇑[30] Nel verbale della seduta del 6 mattina, scritto da D. G. Marenco, si legge infatti questa osservazione: «Si fa una questione se convenga o no lasciare il nome di coad. ai soci secolari o cambiarlo con quello di confratello. D. Bosco e molti opinano che non si debba mutare, solo si mostra la convenienza che non si dia il nome di coadiutori ai famigli». Roma, Arch. Centr. Sal., Verbali del terzo Capitolo Generale tenuto al Collegio di Valsalice nel settembre del 1883; cf. anche in MB XVI, 411s.
⇑[31] P. Braido, Religiosi nuovi…, o. c, p. 20-21.
⇑[32] Cf. MB VI, 335.
⇑[33] MB VI, 479.
⇑[34]
⇑[35] P. Stella, Cattolicesimo…, o. c, p. 414-415.
⇑[36] Questo spiega probabilmente come nei documenti più riservati la menzione di coadiutore, come socio laico della Congregazione, è chiarissima (si veda, per es., la primissima redazione delle Costituzioni, certamente anteriore al 1863). Mentre non appare o entrerà solo tardivamente, verso gli anni’70, senza troppe distinzioni dalla categoria dei famigli, nella documentazione alla portata di tutti (si vedano i Regolamenti per i giovani e per i Superiori, come pure i Ricordi confidenziali ai Direttori e simili).
⇑[37] In Annali, o. c, I, p. 258. Si vedano anche le altre lettere giunte a Torino dopo l’arrivo della prima spedizione missionaria del 1875: risalta subito la caratteristica di assimilare le varie categorie di preti, chierici e coadiutori in una sola unica realtà di «figli di Don Bosco».
⇑[38] MB XVI, 313.
⇑[39] La nostra analisi condivide quella di D. Braido, che ha il merito di aver aperto la strada alla riflessione sulla documentazione disponibile riguardo alla figura del salesiano coadiutore; egli accenna esplicitamente ai fattori che spiegherebbero la «ritrosia di Don Bosco a enunciare più esplicite teorie in materia» : cf. P. Braido, Religiosi nuovi…, o. c, p. 23.
⇑[40] In una conferenza tenuta a Valdocco il 30 ottobre 1876 a 228 professi, ascritti e aspiranti, Don Bosco ha fornito lui stesso questo dato: «E posso accertarvi in nome del Signore che tutti quelli che già fecero professione sono assolutamente chiamati, perchéprima di accettarli volli conoscerli bene [sottolineatura nostra] e se li accettai è segno certo che li credetti adattati[sic] alla grande impresa. D’altronde il Superiore è obbligato sotto pena di colpa grave a non accettare quei tali che non crede chiamati» (MB XII, 560s).
⇑[41] MB XVIII, 126s.
⇑[42] P. Braido, Religiosi nuovi…, o. e, p. 24-25.
⇑[43] MB XII, 625s: si trattò di una conferenza tenuta nella chiesa di S. Francesco di Sales ai Salesiani di Valdocco, con la partecipazione anche degli ascritti, degli aspiranti e dei giovani artigiani interessati delle classi superiori. Un uditorio di 205 persone (ibidem, 141).
⇑[44] MB XII, 149.
⇑[45] MB XII, 151.
⇑[46] Ibidem.
⇑[47] MB XII, 152.
⇑[48] Ibidem.
⇑[49] MB X, 1085s.
⇑[50] MB XIV, 783s.
⇑[51] MB XIV, 394.
⇑[52] Ibidem: la lettera avrebbe dovuto, secondo il Ceria, far conoscere il ‘carattere’ dei Coadiutori ‘non confondibile con quello dei tradizionali conversi’, mentre il contenuto è invece proprio di tenore opposto.
⇑[53] Edito dalla Tip. Salesiana, S. Benigno Canavese 1887.
⇑[54] Riportato in MB XVIII, 702-704.
⇑[55] Trascrizione di Don G. Marenco, segretario del CG3, conservata presso l’Archivio Centrale Salesiano; si veda pure quanto riportato in MB XVI, 411s.
⇑[56] Cf. in Annali, o. c, I, 470 e in MB XVI, 413s.
⇑[57] Ben nota la circolare scritta da Don Rua agli Ispettori e Direttori su tale argomento il 1 novembre 1906: «Ancora una parola pei nostri Confratelli Coadiutori (…) Vorrei che anche tutti voi loro portaste un affetto veramente fraterno e che lo manifestaste trattandoli con tutta bontà, ascoltandoli quando vi rivelano le loro pene, mostrandovi premurosi della loro sanità e provvedendo ai loro bisogni. Conviene che coi fatti e non solo colle parole dimostriamo di tenerli quali nostri veri fratelli. Mi scese al fondo del cuore come uno strale la lagnanza udita qualche volta dai coadiutori, che essi non sono considerati quali fratelli, ma quali servitori. Evitate perciò qualunque cosa potesse dar loro pretesto di pensare così».
⇑[58] MB XVI, 312.
⇑[59] Il Wirth, riferendosi all’intervento di Don Bosco al CG del 1886 e a questo discorsetto del 19 ottobre 1883, afferma testualmente: «Là, a quanto pare, bisogna cercare il pensiero definitivo di Don Bosco»: Don Bosco e i Salesiani, LDC ed., Torino 1969, p. 111.
⇑[60] È il titolo dato da don Braido al testo di San Benigno, riportato in appendice nella sezione ‘Documenti’ del suo studio Religiosi nuovi…, o. c., p. 62.
⇑[61] È quanto afferma D. P. Stella, Cattolicesimo…, o. c., p. 422.
⇑[62] MB XVI, 312s.
⇑[63] È appena da far notare come Don Bosco stesso doveva saggiamente districarsi tra queste contrapposte tensioni: da un lato non voleva contrapporsi a precise indicazioni provenienti dalla corrente concezione teologica, dalle leggi canoniche, dai Sinodi e autorità locali che volevano rispettato e salvaguardato il decoro e lo spirito ecclesiastico (questo lo aveva deciso a separare i noviziati, ad ammettere cioè una certa discriminazione!); dall’altro non desiderava inserire nell’alveo della sua famiglia religiosa una incoercibile radice di stratificazione di categorie, perché risultava contraria alla concezione che aveva dei laici ed era di fatto profondamente estranea alla sua esperienza.
⇑[64] A parer di D. Stella, tale condizione di disagio proveniva non tanto dal settore ecclesiastico, quanto piuttosto dalla categoria degli stessi coadiutori «quelli culturalmente più preparati e più consapevoli del proprio valore professionale. Questi forse (tipografi, librai, sarti…) furono coloro ai quali Don Bosco intese direttamente replicare» (Cattolicesimo…, o. c, p. 425).
⇑[65] Il «caso» si aprì nel corso della decima riunione capitolare del 28 aprile, allorché il relatore Don Pedemonte, incaricato di parlare sul tema 5° circa i Coadiutori, lo fece utilizzando il resoconto manoscritto della conferenza di Don Bosco a S. Benigno, di cui ci stiamo occupando, trovato nell’archivio della stessa casa. Nell’undicesima seduta, del 29 aprile il capitolare Don Costa avanzò i dubbi e le difficoltà di cui si è detto, provocando una vivace discussione intorno alla storicità e autenticità del documento ‘incriminato’: intervennero come testimoni della veridicità di quanto scritto Don Nay, nel 1883 prefetto a S. Benigno, Don Giulio Barberis, estensore, e Don Fascie. Lo stesso Rettor Maggiore «conferma quanto disse Don Nay ed aggiunge che nel 3° Capitolo Generale, essendosi proposto: Bisogna i coadiutori tenerli bassi, formar di essi una categoria distinta, ecc.’ Don Bosco si oppose visibilmente commosso, esclamando: ‘No, no, no; i confratelli coadiutori sono come tutti gli altri’»: in Archivio Centrale Salesiano, Verbali del XII Capitolo Generale (1922), AS 04.
⇑[66] Annali, o. c, I, 704.
⇑[67] È la conclusione che risulta verbalizzata nella dodicesima assemblea capitolare (1 maggio 1922): «Alle ore 9 si apre la seduta colle preghiere di rito. Letto il verbale si osserva che sarebbe meglio dire che le varie espressioni usate da D. Bosco nella conferenza tenuta in S. Benigno nel 1883, non debbono essere prese isolatamente, ma interpretate nel senso di altre conferenze dette da D. Bosco in altre determinate circostanze»: AS 04.
⇑[68] Si veda tutto il cap. XXXII degli Annali, o. c, I, 362-369.
⇑[69] Interessanti risultano le direttive scritte da Don Bosco al direttore Don Ronchail, fra le quali l’ultima inerente il settore di cui ci stiamo interessando: «Si tenga fermo – consigliava Don Bosco – che noi siamo per l’agricoltura e per le arti e mestieri. … per formare dei sorveglianti, maestri di scuola e specialmente tipografi, calcografi e fonditori di caratteri»:Epistolario IV, Don Bosco a Don Ronchail, Roma 23 marzo 1880.
⇑[70] Il Ceria scriveva infatti che «Le Missioni Salesiane d’America, intese nello stretto senso della parola, ebbero un primo inizio nel 1879; poiché appartiene a quell’anno il primo contatto dei Missionari Salesiani con gli Indi della Pampa e della Patagonia, terre immense e per la massima parte ancora inesplorate»: Annali, o. c, I, 378.
⇑[71] «La scongiuro – scriveva, con espressioni care ai moduli prelatizi del tempo, lo stesso mons. Aneyros il 5 agosto di quell’anno – per le viscere misericordiose di Nostro Signore Gesù Cristo, che s’affretti a venire in mio aiuto per soccorrere tante povere anime abbandonate».
⇑[72] Infatti nel giro di quattro anni il lavoro realizzato in Patagonia fu notevole: nella relazione ufficiale inviata alla S. Sede – pur prendendo con la debita cautela la generosità delle cifre – si parla di ben 500 battesimi di indi nel 1883 e di un totale di 5328 battesimi dal 1879 all’83; di due collegi a Patagones con 69 ragazzi l’uno e 93 ragazze l’altro; di vaste esplorazioni dell’ampiezza di 1137 km.
⇑[73] «Era la festa che precedeva la festa di S. Rosa da Lima(30 agosto) ed io ho fatto un sogno…» così Don Bosco raccontò l’accaduto il 4 settembre di quello stesso anno ai membri del 3o Capitolo Generale. Vedi in Annali, o. c, I, 423-434. Il sogno ha acquistato una risonanza tutta speciale con la fondazione di Brasilia.
⇑[74] Si utilizzò il disegno dello stemma che era stato fatto dal prof. Boidi per la chiesa del S. Cuore di Roma. La circolare stampata con la data «Tutti i Santi 1885», venne poi trattenuta da Don Bosco, che la rilesse, la ritoccò e la fece ristampare con data 8 die, festa dell’Immacolata: cf. Annali, o. c, I, 530s.
⇑[75] Dalla lettura, comunque, dell’ELENCO dei Salesiani si evince che in realtà l’unico Noviziato per soli ascritti coadiutori fu quello di S. Benigno. Esso, inoltre, cessò praticamente di essere tale durante la 1a guerra mondiale. Nel 1919 aveva solo più 3 ascritti coad. militari e nel 1920 cessò le sue attività come noviziato. Vi furono nel contempo altri noviziati con preponderanza di ascritti coadiutori, ma con alcuni ascritti chierici frammisti.
⇑[76] Deliberazioni del terzo e quarto Capitolo Generale della Pia Società Salesiana tenuti in Valsalice nel settembre 1883-86, S. Benigno Canavese 1887, p. 16-17.
⇑[77] E. Ceria, Annali, o. c., I, p. 653.
⇑[78] Cf. P. Stella, Cattolicesimo…, o. c, p. 420.
⇑[79] In M. Rua, Lettere circolari, Torino 1910; le citazioni sono prese dall’ediz. del 1965, p. 187-189: lettera datata Torino, 31 gennaio 1910.
⇑[80] Ibidem.
⇑[81] M. Rua, Lettere circolari, o. c, 207s; dat. Torino, 24 giugno 1898.
⇑[82] Cf. Lett. circ. n. 18, 20 gennaio 1898.
⇑[83] M. Rua, Lett. circ, o. c, 245s., dat. Torino 20 gennaio 1900.
⇑[84] P. Stella, Cattolicesimo…, o. c, p. 426.
⇑[85] P. Ricaldone, in ACS 24 giugno 1920, 16s.
⇑[86] ID., in ACS 24 dic. 1920, p. 103.
⇑[87] P. Albera, Lett. circ. Sulle vocazioni, Torino 15 maggio 1921, in ACS 4 (1921) 205-207.
⇑[88] P. Braido, Religiosi nuovi…, o. c, p. 31. È in questa circolare che si ribadisce chiaramente che i Coadiutori non costituiscono un secondo Ordine, poiché in Congregazione preti e laici «godono tutti gli stessi diritti e privilegi; il carattere dell’ordine sacro impone sì, maggiori doveri, ma i diritti sono uguali tanto per i sacerdoti e i chierici quanto per i Coadiutori».
⇑[89] Ibidem, p. 84.
⇑[90] Ibidem, p. 31.
⇑[91] ACS 16 (24 ott. 1922), p. 29-30.
⇑[92] Si veda la circolare pubblicata in ACS del 24 die. 1920, dove si fa appunto notare la necessità di recuperare una prerogativa specifica dell’opera salesiana: alla morte di Don Bosco le scuole professionali coprivano il 34% dell’opera salesiana; dopo 32 anni il settore, perdendo il 20%, era ridotto solo al 14%.
⇑[93] Ci si riferisce in particolare agli appunti riguardanti Conferenze presentate al teologato di Torino (Crocetta), una Conferenza ai Coadiutori di Sampierdarena, una «Storia del Coadiutore Salesiano» di cui già si parlò nel corso del presente scritto, e alcuni Appunti per la discussione del II tema al Capitolo Generale XIII.
⇑[94] In ACS 40 (1927) 572-580. Occasione dell’importante lettera scritta da Don Rinaldi fu la fondazione, avvenuta il 17 luglio 1927, della Scuola Agricola Missionaria a Cumiana, grazie alla donazione di un vasto latifondo da parte delle sorelle Flandinet per la formazione del personale missionario.
⇑[95] Ibidem.
⇑[96] Ibidem.
⇑[97] Ibidem, 572.
⇑[98] In ACS 93 (1939) 179-181.
⇑[99] Cf. ACS 91 (gennaio-febbraio 1939) p. 30-32.
⇑[100] Nei dieci anni da noi presi in considerazione, dal 1948 al 1957, queste sono le rubriche che sistematicamente appaiono: Articoli di fondo e vari. Per la Madonna, La parola del Papa, Su argomenti vari, Vocazione e vocazioni, Giornata del Coadiutore, Educazione ed educatori, Oratorio e Catechismo, La pagina professionale, La pagina sociale, Profili, Mostre e convegni, Notiziario e corrispondenza, Asterischi.
⇑[101] Si veda, per es., l’articolo La vocazione del coadiutore salesiano (novembre-dicembre 1954); L’apostolo dei tempi nuovi (gennaio-febbraio 1955) 6; Coadiutori sacerdoti e coadiutori operai (gennaio-febbraio 1956) 7; L’apostolato del Coadiutore nelle missioni(novembre-dicembre 1956) 103; Preparazione tecnica del coadiutore (novembre-dicembre 1956) 112; Il Coadiutore lavoratore ed apostolo (marzo-aprile 1957) 29-49, (luglio-agosto 1957) 67; (settembre-ottobre 1957) 90; Maestri di lavoro: un problema attuale (settembre-ottobre 1957) 97.
⇑[102] P. Braido, Religiosi nuovi…, o. c, p. 187, nota 6.
⇑[103] Ibidem.
⇑[104] Com’è noto, morì il 25 nov. 1951.
⇑[105] Alcune di queste ‘raccomandazioni’ sono significative e persino singolari: «1) Celebrare annualmente la Giornata del Coadiutore (…). 2) Continuità, nel limite del possibile, del personale dirigente, per la cui opera fioriscono le vocazioni. 3) Favorire il sorgere fra i Chierici degli Studentati di Circoli Professionali per interessarli alle vocazioni artigiane ed ai problemi delle Scuole Professionali. 4) La rivista «Il Salesiano Coadiutore» sia favorita e possibilmente edita in varie lingue. 5) Far leggere la vita di Don Bosco ai nostri ragazzi e far conoscere le figure più benemerite dei nostri Coadiutori. 6) Facilitare nelle Scuole Professionali ed Agricole l’accettazione dei giovani di modesta condizione. 7) Selezionare l’accettazione dei giovani, favorendo i figli di famiglie numerose (…). 8) Curare le vocazioni artigiane anche tra gli oratoriani (garzoni di bottega, apprendisti). 9) Insistere perché i nostri Confratelli Coadiutori siano i primi interessati a cercare vocazioni con la preghiera e il buon esempio. 10) Si possono trovare buone vocazioni per i Coadiutori tra i giovani, anche seminaristi, che, non inclini agli studi ecclesiastici, hanno in cuore un ideale religioso ed attitudini all’apprendimento di un’arte».
⇑[106] Si veda l’edizione del 1954, la parte I, sez. II, capitolo III: art. 58-60; sez. IV, art. 331-333.
⇑[107] Cf. Bollettino Salesiano, giugno 1965, 164.
⇑[108] Atti Convegno Mondiale Salesiano Coadiutore, Roma 1976, p. 15.